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Una lettura

Il programma di un papato

Sergio Belardinelli

Nell’enciclica “Deus caritas est”, firmata alla fine del 2005, c’è tutta l’idea di Chiesa propria di Benedetto XVI. Era l’apertura di una prospettiva che avrebbe dovuto animare il corso del pontificato

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Pubblichiamo un testo di Sergio Belardinelli, scritto per l’allora Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e famiglia poco dopo la promulgazione dell’enciclica “Deus caritas est”, il 25 dicembre 2005

 

Deus caritas est. In questo modo, antico e sempre nuovo, la prima enciclica di Benedetto XVI ripropone il “realismo inaudito” (n. 12) della figura di Gesù Cristo, il suo dono d’amore che, proprio in quanto “dono”, può diventare anche “comandamento” (n. 14), qualcosa che impegna a diventare come lui, a guardare il mondo con i suoi occhi. Succede così che l’amore, un concetto quasi estenuato dagli usi deboli e riduttivi della cultura del nostro tempo, ritrovi improvvisamente “carne e sangue”, una misura che, rilanciandolo ben oltre il sentimentalismo, l’attrazione sessuale o la filantropia, ne fa la chiave per “coinvolgere tutte le potenzialità dell’uomo ed includere, per così dire, l’uomo nella sua interezza” (n. 17). Eros e agape insieme: questo è l’amore a cui siamo chiamati come singoli credenti e come comunità cristiana. […].

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Diversi commentatori hanno già parlato di una enciclica programmatica. E per molti versi certamente lo è. Un po’ come lo fu la Redemptor hominis per il grande magistero di Giovanni Paolo II. In entrambi i casi si tratta comunque di un programma sui generis. Siamo di fronte, non a un’elencazione di temi, quanto piuttosto all’apertura di una prospettiva che molto probabilmente animerà tutto ciò che verrà dopo. E non credo sia fuori luogo immaginare che Benedetto XVI abbia scelto di proporre il comandamento dell’amore, “l’interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo” (n. 18), come il vero banco di prova della vita cristiana, sia sul piano della vita individuale, sia su quello della comunità ecclesiale. Un richiamo forte insomma su un tema, destinato ad avere un impatto notevole non solo all’interno della chiesa, ma in tutta la cultura del nostro tempo. Deus caritas est: ecco il volto di Dio che, attraverso la Chiesa, Benedetto XVI ci invita a guardare. “La carità – come si legge espressamente nell’enciclica – non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è l’espressione irrinunciabile della sua stessa essenza” (n. 25). 

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A partire da questo presupposto teologico, vorrei soffermarmi su due aspetti dell’enciclica che trovo particolarmente significativi: il “profilo specifico” che viene attribuito all’attività caritativa in quanto tale e il rapporto in cui quest’ultima viene posta con le diverse forme di assistenza sociale e di attività umanitaria che si riscontrano nell’odierna società.

Tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo; cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sue realizzazioni storiche; e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana” (n. 19). Era dunque inevitabile che un tale amore dovesse impattare anche l’ambito della politica in generale e della giustizia in particolare. A questo proposito, ribadito il principio dell’autonomia delle cosiddette realtà temporali, Benedetto XVI non manca di riaffermare anche il principio della “relazione reciproca” in cui vengono inevitabilmente a trovarsi fede e politica, Chiesa e Stato.

A dispetto di coloro che, in nome di una malintesa laicità, vorrebbero una fede nettamente separata dalla politica e ridotta a fatto puramente privato, l’enciclica ci ricorda che c’è un “punto in cui politica e fede si toccano” (n. 28). Questo punto è dato dalla natura stessa dell’essere umano. Una natura che è tanto più razionale, quanto più fede e ragione, anziché porsi in antitesi, sono capaci di illuminarsi reciprocamente; una natura che è tanto più razionale, quanto più l’umana ragione, specialmente quando affronta questioni cruciali come ad esempio la giustizia, è capace di rimanere veramente aperta, di farsi, come dice il Papa, “purificare” dalla fede.

E’ dunque a partire da questo punto che la fede, illuminando la politica sul senso della vera giustizia, la mette al riparo dal “pericolo mai totalmente eliminabile” di sottomettersi al potere fine a se stesso e di assecondare così una tentazione autarchica, che ne farebbe oltretutto il contrario di una politica veramente laica, liberale e democratica. “La Chiesa – ricorda Benedetto XVI – non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini della lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare” (n. 28).

In questo accenno alle “forze spirituali”, indispensabili per una politica che voglia essere al servizio della giustizia, ma non riproducibili per via esclusivamente politica, si sente risuonare un motivo assai ricorrente nella riflessione del cardinale Joseph Ratzinger. Con le parole di un autore a lui certamente noto, Wolfgang Boeckenfoerde, potremmo dire che lo Stato liberale di diritto vive di presupposti che da solo non è in grado di garantire. Il giusto funzionamento delle istituzioni liberaldemocratiche, nonché la consapevolezza dei loro limiti hanno bisogno di una cultura politica e di una coscienza morale difficili da mantenere se si perdono di vista i loro presupposti religiosi, diciamo pure certe “forze spirituali”, capaci di tener vivo, nel mezzo della dialettica democratica ispirata al principio di maggioranza, il senso di qualcosa che vale incondizionatamente.

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“La domanda sull’incondizionatamente buono o sull’incondizionatamente malvagio – scriveva Ratzinger nel 2002 – non può essere elusa, se ci deve essere un ordinamento della libertà che sia degno dell’uomo”. La stessa struttura argomentativa, tendente a far valere ciò senza di cui la politica rischia di chiudersi in se stessa, viene dunque riproposta nell’enciclica. In un certo senso, pur ravvisandone tutta l’importanza, è un po’ come se Benedetto XVI ci richiamasse la non autosufficienza, se così posso dire, del discorso sulla giustizia, spingendoci a guardare più lontano, a non dimenticare che quand’anche realizzassimo la società più giusta, non per questo avremo eliminato il dolore, la malattia, la solitudine, la morte. “L’amore – caritas – sarà sempre necessario anche nella società più giusta. Non c’è alcun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo” (n. 28). 

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La politica moderna non sembra invero molto sensibile a questo genere di argomentazioni. I suoi presupposti antropologici sono per lo più materialistici e individualistici, tendenti ora a ridurre l’umano al sociale, ora a separare nettamente ma aprioristicamente i due ambiti. Per questo tali presupposti sono incapaci di rendere ragione della essenziale relazionalità e trascendenza dell’uomo, del fatto cioè che l’uomo è tale in quanto è essenzialmente in relazione (in relazione con Dio, col mondo, con gli altri uomini), senza essere mai riducibile alle sole condizioni sociali o biologiche della sua esistenza.

La tendenza tipicamente moderna a ridurre la complessa dialettica sociale a una dialettica tra Stato e cittadino è in ultimo riconducibile a questo deficit di antropologia. Tuttavia dopo la tragedia dei regimi totalitari, stante il fenomeno della globalizzazione e la crisi del modello occidentale di welfare state, che sembra rendere sempre più drammatico, a livello nazionale e internazionale, il problema della giustizia; stante altresì la crisi culturale delle nostre liberaldemocrazie, strette tra la frammentazione individualistica, che rende sempre più difficile la percezione di un ethos comune, e la crescente egemonia di una cultura che, grazie al potere della tecnica, sembra voler trasformare qualsiasi desiderio in “diritto”; stante infine il magistero davvero poderoso di Giovanni Paolo II, mi pare si possa dire che la questione antropologica stia riguadagnando il centro della scena. Ed è in tale contesto che va letta, a mio avviso, questa sorta di antropologia dell’amore che ci viene proposta dall’enciclica di Benedetto XVI.

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L’uomo non è fatto per essere solo; per essere felice ha bisogno di amare e di essere amato; ha bisogno degli altri, i quali, proprio per questo, non rappresentano soltanto il “limite” della sua libertà o, peggio ancora, il suo “inferno”, secondo la nota espressione di Jean Paul Sartre, ma la condizione, affinché egli possa vivere felice. Naturalmente l’uomo ha bisogno anche di giustizia, ma più ancora, lo ripeto, ha bisogno d’amore. Qualcosa del genere aveva intuito anche Aristotele, allorché nell’Etica Nicomachea raccomandava ai governanti di coltivare la giustizia, ma di tener d’occhio soprattutto l’amicizia,  poiché “quando si è amici non c’è bisogno di giustizia, mentre quando si è giusti c’è ancora bisogno d’amicizia”.

Ebbene, su questo punto, l’argomentazione di Benedetto XVI sembra seguire e arricchire quella di Aristotele. L’essenziale caducità della vita umana è qualcosa che non può essere compensata dallo Stato, il quale, se volesse farsi carico di tutto, diventerebbe proprio per questo il peggior nemico dell’uomo. Con parole molto belle l’enciclica ci ricorda che “Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto” (n. 28).

A questo punto, ribadita la centralità del principio di sussidiarietà in ordine al corretto rapporto tra lo Stato e le “diverse forze sociali”, diciamo pure tra lo Stato e la società civile, secondo una linea ormai decisamente consolidata nel magistero della Chiesa, il discorso di Benedetto XVI si curva sulla Chiesa stessa e così continua: “La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale”. E siamo giunti così all’opus proprium della Chiesa, definito in termini di carità e distinto dalla semplice assistenza sociale e dalla filantropia, ma anche teso a promuovere una fattiva collaborazione con tutto ciò che contribuisce a fronteggiare i bisogni dell’uomo. Si tratta di un punto sul quale vale sicuramente la pena spendere qualche considerazione, specialmente se consideriamo la disputa mai sopita tra coloro che vorrebbero ridurre la Chiesa a una sorta di agenzia di solidarietà sociale e coloro che vorrebbero invece estraniarla del tutto dai bisogni concreti dei poveri di tutto il mondo. 

Al paragrafo n. 30 dell’enciclica si trova un significativo “apprezzamento e ringraziamento” da parte del papa per tutti coloro che, nella Chiesa e fuori, lavorano alla promozione della dignità dell’uomo. Le attività caritative della Chiesa e quelle dei singoli fedeli, quelle degli Stati e quelle delle “associazioni umanitarie” e di “volontariato”, quelle delle “altre Chiese” e quelle delle “molteplici organizzazioni con scopi caritativi e filantropici”, tutte vengono apprezzate come segni incoraggianti di una crescente solidarietà tra i popoli, come il segno che “l’amore del prossimo iscritto dal Creatore nella natura dell’uomo” e proclamato da Gesù Cristo “si espande ben oltre le frontiere della fede cristiana” (n. 31).

La Chiesa riconosce quindi senza alcuna riserva il valore di quanto viene fatto a diversi livelli, personale, associativo, nazionale e internazionale, per lenire l’umano bisogno e l’umana sofferenza. Non possiamo rimanere sordi alla miseria, al dolore e alla solitudine del nostro prossimo; meno che mai può farlo la Chiesa; tanto è vero che la parabola del buon Samaritano viene richiamata espressamente da Benedetto XVI come il “programma di Gesù” e quindi come il vero modello della sollecitudine della Chiesa nei confronti dell’uomo. Detto questo, però, nell’enciclica si avverte anche una sorta di preoccupazione del papa, affinché la carità della Chiesa “non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante” (n. 31). E questo mi sembra un aspetto molto importante, proprio alla luce dell’apprezzamento che in precedenza è stato espresso per l’attività umanitaria e filantropica in generale. Cerchiamo dunque di vedere quali sono, secondo Benedetto XVI, “gli elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale” (n. 31). 

Premesso che, “Secondo il modello della parabola del buon Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc.”; premesso questo, dicevo, l’enciclica indica come primo “elemento costitutivo” della carità cristiana la “competenza professionale”, ossia la capacità di “fare la cosa giusta nel modo giusto”, come pure una certa capacità organizzativa. Ma questa professionalità, da sola, non basta. “Si tratta infatti di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa di più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore”.

Di qui il secondo, e più importante, elemento costitutivo della carità cristiana: la “formazione del cuore”, diciamo pure una tale interiorizzazione di Cristo che sia capace di farci diventare il più possibile come Lui, addirittura una cosa sola insieme a Lui. Un cuore formato sul modello di Cristo è un cuore per il quale l’amore del prossimo non è  più “un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla fede che diventa operante nell’amore” (n. 31). 

Proprio perché il suo modello è rappresentato da Gesù Cristo e nasce dalla fede, la carità cristiana – ecco il suo terzo “elemento costitutivo” – “deve essere indipendente da partiti e ideologie”. Benedetto XVI conosce bene la vicenda storica degli ultimi due secoli, il peso esercitato da ideologie politiche che, si pensi soprattutto al marxismo, hanno gettato discredito sulle opere caritative, poiché considerate al servizio della conservazione dello status quo e quindi di ostacolo al pieno dispiegamento della dialettica rivoluzionaria; conosce bene altresì la tentazione che serpeggia in molti partiti politici di strumentalizzare a proprio vantaggio le opere di carità della Chiesa e di presentarsi così come il partito del bene.

Ma proprio per questo egli insiste con tanta forza sulla specificità della carità della Chiesa, preoccupandosi che essa non diventi una “variante” delle tante “organizzazioni assistenziali”; proprio per questo, quale suo quarto “elemento costitutivo”, egli insiste con altrettanta forza sul fatto che la stessa carità della Chiesa “non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo”. Con parole molto belle, Benedetto XVI ci ricorda che “l’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi… Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa… che Dio è amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare. Egli sa che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. E’ compito delle organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire – come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio, diventino testimoni credibili di Cristo” (n. 31).

Se, come abbiamo visto, nemmeno la giustizia può mettersi al posto di questo amore, nel quale si esprime l’essenza di Dio e la salvezza dell’uomo; se nemmeno la giustizia può pretendere di esprimere in modo esaustivo il senso della caritas, meno che mai può farlo la semplice filantropia. L’una e l’altra sono buone, certo. Ma entrambe possono essere strumentalizzate, diventare un pretesto, un mezzo, per realizzare secondi fini, spesso inconfessabili, o per volgersi addirittura con virulenza distruttiva contro il mondo, considerato reo di aver prodotto un male inaccettabile, rispetto al quale ci si rifiuta magari di fare il bene possibile qui e ora, in attesa di un bene futuro ancora più grande che sani tutte le ferite.  

I Demoni di Dostoevskij rappresentano da questo punto di vista il documento forse più alto della possibilità che il desiderio di giustizia universale e la filantropia, trasformati in ideologia, finiscano per mascherare una sorta di radicale rifiuto del mondo reale e diventare così elementi di distruzione e dispotismo. Mi sembra pertanto che un merito non secondario della prima enciclica di Benedetto XVI sia anche quello di ricordarci come soltanto l’amore di Dio ci consenta di amare veramente gli altri uomini, il mondo e noi stessi, di vedere il lato buono di tutto ciò che esiste nonostante le storture […].

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