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Ratzinger prima di Benedetto. Chi è stato davvero il papa emerito

Matteo Matzuzzi

Una figura enorme, che ha resistito a tanti attacchi anche personali, ma che si irritava se un volume di Kafka era stato riposto al contrario nella sua biblioteca. Una biografia a ritroso, dagli anni della rinuncia fino a quelli del grande Concilio e delle dispute teologiche

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Chi è stato Joseph Ratzinger-Benedetto XVI? Di lui si conoscono il curriculum, le innumerevoli pubblicazioni, i discorsi. Ma oltre a ciò, cosa si staglia dietro al minuto profilo di questo intellettuale bavarese? Una figura enorme, che resistette ai tanti attacchi anche personali subiti, ma che si irritava se un volume di Kafka era stato riposto al contrario nella sua fornitissima biblioteca domestica. “I suoi amici sono i libri. E se non c’è un libro a fargli compagnia, allora al suo posto c’è una grande figura della storia della Chiesa”, ha detto il segretario personale Georg Gänswein

  
Si potrebbe partire dalla fine, dagli anni del ritiro nella quiete dei Giardini vaticani o dai drammatici mesi in cui l’anziano Papa dialogava con Dio sul passo fatale che stava maturando nel cuore, la rinuncia. Oppure, scandagliando le vicende del pontificato, dalle folle che a Colonia, Sydney e Madrid andavano ad ascoltarlo, agli scandali e ai momenti bui che travagliarono gli otto anni in cui governò la Chiesa dopo Karol Wojtyla. Ma è correndo ancora più a ritroso nel tempo, risalendo il corso dei decenni, che si possono capire parole scritte e pronunciate, gesti e decisioni di Benedetto XVI. Tornando agli anni Cinquanta e Sessanta, quelli dell’attesa per il grande Concilio, della sua celebrazione e delle sue conseguenze. Gli anni dell’insegnamento universitario e delle dispute teologiche in un contesto sociale e culturale che stava rapidamente mutando. 

  
Il principio di tutto è quel Sabato santo del 1927, quando fu battezzato Joseph Aloisius, il figlio più piccolo del gendarme Joseph Ratzinger, nato solo il giorno prima. Un episodio profetico: il futuro Papa, da bambino, vide per la prima volta il cardinale Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco e Frisinga, e disse “diventerò un cardinale”. E poi le vicende dell’infanzia, gli anni del seminario, le letture. Una delle sue preferite era Il lupo della steppa di Hesse, di cui lo colpì “l’analisi spietata della disgregazione dell’Io, che rispecchia quanto sta accadendo oggi all’uomo”. Studiava Newman e Guardini, leggeva di tutto: da Sartre a Camus, da Huxley a Orwell e Bernanos. Ma nulla lo colpì più delle Confessioni di sant’Agostino, santo che “sento come un amico, un contemporaneo che parla a me”. Se fosse rimasto solo su un’isola deserta con due soli libri a disposizione, avrebbe scelto la Bibbia e le Confessioni, dirà anni dopo. “Proprio a causa della sua passione per l’uomo ha necessariamente cercato Dio, perché solo nella luce di Dio anche la grandezza dell’uomo, la bellezza dell’avventura di essere uomo può apparire pienamente”. Annota Peter Seewald nella monumentale biografia di Ratzinger che “è la lotta combattuta nella ricerca di Dio a commuoverlo, la pienezza di conoscenze che non si acquisiscono semplicemente sui libri ma solo grazie a un profondo moto dell’anima. L’identificazione con il maestro arriva al punto che, secondo lo studioso del vescovo di Ippona Cornelius Mayer, si potrebbe parlare di Ratzinger come di un secondo Agostino, un Augustinus redivivus”.

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Arrivò Bonn, la cattedra universitaria a trentadue anni. Lì, “una voce come quella di Ratzinger non s’era mai udita”. Solo poche settimane dopo il suo arrivo, si dovette cercare un’aula più spaziosa per consentire a tutti gli studenti di assistere alle lezioni. E non bastò ancora: la folla era così numerosa che l’amministrazione universitaria fu costretta ad attivare un altoparlante per consentire a quanti affollavano l’Aula magna di poter ascoltare le spiegazioni del giovane professore. Ratzinger era nel suo elemento, quell’esperienza fu per lui come “una festa del primo amore”. Poi ci fu il Concilio. Il cardinale arcivescovo di Colonia, Josef Frings, era rimasto estasiato da quel brillante teologo di Monaco quando nel febbraio del 1961 assistette a una sua conferenza all’accademia Thomas More di Bensberg. “Un modello costitutivo di origine profana viene applicato alla Chiesa e si perde di vista ciò che rende unica la Chiesa, vale a dire la sua origine divina. Il Concilio non è un parlamento e i vescovi non sono deputati che traggono la loro autorità e il loro mandato esclusivamente dal popolo che li ha eletti. Non rappresentano il popolo, ma Cristo, da cui ricevono la loro missione e consacrazione”. Frings subito lo prese con sé come ghostwriter, gli chiese di scrivere un discorso che di lì a poco avrebbe dovuto pronunciare a Genova sulla teologia del Concilio. Ratzinger accettò, compose un testo che lasciò senza parole la platea. Giovanni XXIII convocò Frings per ringraziarlo: “Lei ha detto tutto ciò che ho sempre pensato e voluto dire, ma che da solo non sono mai riuscito a esprimere”. In quel documento, il trentaquattrenne professore chiariva che il compito della grande assemblea che si sarebbe aperta di lì a poco era di formulare la fede cristiana come un’alternativa reale, praticabile e degna di essere vissuta, nel dialogo con una modernità profana. Frings volle Ratzinger a Roma, doveva seguirlo per l’apertura del Concilio. Il teologo era entusiasta di quell’evento, convinto che il cristianesimo dovesse essere “molto più a contatto con la realtà, più dinamico e più originale”.

  

Arrivato a Roma, dovette sistemarsi in un ostello in via Zanardelli, ché al Collegio tedesco per lui non c’era posto: dopotutto era un giovane consigliere e nulla più (perito lo sarebbe diventato dopo), che si portò in valigia un dizionario di italiano. Non vedeva l’ora di incontrare i teologi che più ammirava, da de Lubac a Daniélou, da Congar a Philips. Incontrò anche Karl Rahner. Si rallegrò di quello che il cardinale Suenens definì “felice colpo di stato e audace violazione del regolamento”. In sostanza, il 13 ottobre 1962, giorno della prima congregazione generale, tra gli applausi dei tremila padri presenti, i cardinali Liénart e Frings guidarono la protesta contro l’elezione pro forma dei commissari del Concilio, mandando un chiaro segnale alla vecchia guardia curiale. “Le sorti del Concilio sono state decise in buona parte in questo momento”, annotò Suenens nei suoi diari. Ratzinger esultava: “Il Concilio era determinato ad agire in modo indipendente e a non abbassarsi a essere mero organo esecutivo delle commissioni preparatorie”. Anni dopo, ripensando a quanto accadde, l’entusiasmo di allora fu soppiantato dal rammarico: “Ciò che per Frings era solo la conseguenza implicita della convocazione del Concilio e un’espressione concreta di cattolicità interessò l’opinione pubblica sotto tutt’altro aspetto: il pubblico vide nell’evento una ribellione, un atto di insubordinazione alla curia e l’episodio accese così i sentimenti antiromani e il desiderio primordiale di sfidare l’autorità”. Il Reno, come scrisse il giornalista Ralph Wiltgen, “iniziò a scorrere nel Tevere”. Notò Ratzinger che ribellandosi “alla continuazione unilaterale di una spiritualità antimodernistica”, i padri “avevano deciso di intraprendere un nuovo cammino e di portare avanti un pensiero e un linguaggio positivi”. Insomma, quello che due decenni più tardi sarebbe stato definito sprezzantemente come “l’Inquisitore” o il “Panzerkardinal”, era un teologo fortemente impegnato nel portare acqua al mulino del fronte novatore.

 

“Certo che ero progressista. A quei tempi progressismo non significava rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e a viverla in modo più giusto, ripartendo dalle sue origini”, disse. Già nel 1960 aveva le idee chiare su quale dovesse essere la strada conciliare: “Ciò che conta è ridare vita alle asserzioni di fede, rimuovendone la rigidità sistematica, ma senza intaccare ciò che in esse è veramente valido, riportandole alla loro vivacità originaria”. Era consapevole che molto andava cambiato, senza però imporre storture ma rimanendo fedeli al cuore pulsante della fede. Ratzinger – scrive il suo biografo – era disgustato da un cristianesimo piccolo-borghese e fin troppo conformista che si cullava nella sua comoda sicurezza. Si era formato in seno alla teologia riformista e allo stesso tempo si confrontava costruttivamente con la vita, il pensiero e la conoscenza del presente”. Era dunque convinto “che la sola intenzione di adeguarsi al mondo, senza trovare un giusto equilibrio con la tradizione, avrebbe condotto la Chiesa a non conquistare nuovi fedeli, ma a perdere se stessa”.

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Ma già pochi anni dopo la chiusura del grande evento, Ratzinger avvertì gli scricchiolii: “C’era una grande differenza tra ciò che i padri volevano e ciò che veniva trasmesso all’opinione pubblica e influenzava il sentire comune. I padri volevano aggiornare la fede e con questo aggiornamento intendevano restituire alla fede tutta la sua forza”. Invece, si era diffusa l’impressione che “la Riforma consistesse semplicemente nel liberarsi da inutili zavorre, in un alleggerimento: il risultato fu che la riforma non apparve come una radicalizzazione della fede, ma come una sorta di suo assottigliamento”. “L’apertura al mondo – disse – non significa per il cristiano una condizione più confortevole, nella quale ci si può tranquillamente abbandonare al conformismo mondano di una cultura di massa alla moda”. 
Venivano in superficie tutte le derive che sbrigativamente, nei decenni successivi, sarebbero andate a ingrossare il tema della cosiddetta “interpretazione del Concilio”. Se alla vigilia della terza sessione del Concilio Ratzinger diceva che “non c’era alcuna ragione di scetticismo”, prima della quarta sessione il suo tono cambiò. 

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Il 18 giugno 1965, in una conferenza all’Università di Münster intitolata “Vero e falso rinnovamento nella Chiesa”, il futuro Pontefice elencò i pericoli che la Chiesa rischiava di dover affrontare. Bisognava stare attenti da un lato all’irrigidimento della propria tradizione, dall’altro alla sua disgregazione per adattarsi al mondo. Un anno dopo, la sentenza: “Diciamolo apertamente: c’è un certo disagio, un clima di disincanto e delusione [...]. Secondo alcuni il Concilio ha fatto troppo poco [...], secondo altri è stato uno scandalo, la resa della Chiesa all’assenza della spiritualità di un tempo in cui Dio si è eclissato, a causa della brutale ossessione per le cose terrene. Sono sgomenti e feriti nel vedere che ciò che è più sacro per loro vacilla e voltano le spalle a un rinnovamento che ritengono una svendita del cristianesimo e quindi una sua dissoluzione; e questo accade in un momento in cui occorrerebbe invece avere più fede, speranza e amore”. 

 
Discorsi, scritti, commenti che fanno ben comprendere la consapevolezza che si fece largo in Joseph Ratzinger, la maturazione di pensiero del giovane entusiasta per il Concilio e il professore perplesso per le tante derive e interpretazioni dello stesso. Tutti elementi che aiutano a capire che non ci fu alcuna svolta legata e limitata agli avvenimenti del Sessantotto, con la protesta a Tubinga che vide coinvolta la facoltà cattolica dove nel frattempo si era trasferito. Si è molto favoleggiato su un presunto “trauma” subito da Ratzinger, sconvolto da quanto accadde nell’ateneo, tra le occupazioni, le proteste e le minacce ai docenti – “l’esistenzialismo andava in pezzi e la rivoluzione marxista si accendeva in tutta l’università, la scuoteva fin dalle fondamenta” –, scriverà più tardi.

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Non pochi dissero che Ratzinger era a tal punto turbato da andarsene nella più tranquilla Ratisbona. Non fu per quella ragione, anche se gli eventi del Sessantotto segnarono una cesura nella storia e nella consapevolezza della stessa. Ne è dimostrazione il testo uscito qualche anno fa e superficialmente passato nella narrazione mediatica con titoli quali, ad esempio, “Preti pedofili a causa del Sessantotto”. Quando in realtà la testimonianza di Ratzinger voleva evidenziare come il problema reale e drammatico dell’oggi sia l’assenza di Dio, la sua negazione. E sì, gli anni Sessanta c’entravano, ma solo come dato fattuale: “Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni Sessanta, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa”. Non ci fu insomma nessuna svolta tra il Ratzinger progressista pre 1968 e il Ratzinger conservatore post 1968. Chi lo pensa, non tiene conto del significato che dava al termine “progressismo” lo stesso Ratzinger. Nella posizione di Ratzinger, Henri de Lubac vedeva la salvezza “dalla melma di un progressismo che ci conduce alla disintegrazione spirituale e, al tempo stesso, il modo corretto di soddisfare il desiderio che molti hanno di un rinnovamento autentico”.

“Il problema vero era il compito che quella nuova epoca ci metteva di fronte, era l’irruzione del marxismo e delle sue promesse”, scriverà il futuro Papa in La mia vita. Il pericolo grande, aggiungeva, era che “la distruzione della teologia, che avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianesimo marxista” potesse risultare affascinante perché “basata sulla speranza biblica”. 

 

La conseguenza possibile di ciò era che si conservasse “il fervore religioso, eliminando però Dio, e sostituendolo con l’azione politica dell’uomo”.  Sono gli anni dei cinque celebri e un po’ profetici – anche se Ratzinger ricordò che “il teologo non è un indovino né un futurologo che fa calcoli sul futuro basati su fattori misurabili del presente – discorsi radiofonici, l’ultimo dei quali trasmesso il giorno di Natale sulle frequenze della Hessian Rundfunk: “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che essa aveva costruito in tempi di prosperità. Man mano che il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche molti dei suoi privilegi sociali. Rispetto all’epoca precedente, sarà considerata molto di più come una società volontaristica, cui s’accederà solo in base a una decisione libera”. 

  
Ratzinger non ha mai avuto alcun dubbio sulla decisione di convocare il Vaticano II: “E’ stato sicuramente giusto farlo”, dice a Seewald, aggiungendo che“ci fu un momento nella storia della Chiesa in cui ci si aspettava semplicemente qualcosa di nuovo, un rinnovamento che partisse dalla Chiesa stessa e la coinvolgesse in ogni sua parte; non fu qualcosa che venne unilateralmente stabilito a Roma. La convocazione del Concilio venne a soddisfare esattamente quell’aspettativa generale”. Le critiche di Ratzinger al post Concilio non erano isolate, Von Balthasar denunciò il fatto che “spiriti meschini” stessero sfruttando i documenti approvati durante la grande assemblea voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI per mettersi in mostra. Nelle università succedeva di tutto, un teologo della facoltà dove insegnava Ratzinger si mise a “insegnare che le sue opinioni erano l’autentico cattolicesimo”. De Lubac smise di collaborare con Hans Küng, che nel frattempo veniva biasimato da Von Balthasar: “Küng è un birbante, lo conosco molto bene. A Tubinga è così insopportabile che il suo collega J. Ratzinger, che vale cento volte più di lui, per sfuggire alla sua presenza si è ritirato nella piccola facoltà di Ratisbona”, scrisse in una lettera indirizzata a De Lubac. 
Intanto, il professor Ratzinger vedeva attuarsi “la distruzione di quell’inizio tanto promettente che era stato il Concilio”. A Tubinga, nella facoltà cattolica, comparvero opuscoli che stigmatizzavano la croce come simbolo di glorificazione sadomasochistica del dolore. I teologi principianti inneggiavano a un “Gesù maledetto”. Ricorda Thomas Moll: “Improvvisamente si diffuse l’abitudine di celebrare la messa negli appartamenti privati, mentre ognuno aveva in mano un bicchiere di vino rosso”. Scriverà Ratzinger: “Ho visto senza veli il volto crudele di questa devozione ateistica, il terrore psicologico, la sfrenatezza con cui si arriva a rinunciare a ogni riflessione morale, considerata come residuo borghese, laddove era in questione il fine ideologico”. Nonostante ciò, da parte sua non vi fu alcuna abiura della stagione conciliare: non si può indulgere “alla nostalgia di un passato che non può tornare”, disse mentre si apprestava a mettere nero su bianco la sua Introduzione al cristianesimo, libro pubblicato nel 1968 e diventato un bestseller. Nota Seewald che “basta leggere” quest’opera “per vedere che prima del 1968 e dopo il 1968, prima del Concilio e dopo il Concilio, prima del suo periodo romano e durante il suo periodo romano, la teologia e il pensiero di Ratzinger restarono gli stessi, fatta eccezione per alcune sfumature e qualche approfondimento”. 

  
Passarono gli anni nella tranquilla Ratisbona, fino a quando, nel 1977, giunse inaspettata da parte di Paolo VI la nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. La notte fu terribile, i dubbi lo assillavano: accettare o no? Gli venne in mente il Salmo 72: “Ero stolto e non capivo, davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre, tu mi hai preso la mano destra”. L’indomani mattina, disse dì sì. Come avrebbe detto sì a Giovanni Paolo II, che già pochi mesi dopo l’elezione lo voleva con sé a Roma. Ratzinger si fece attendere a lungo: quando Wojtyla gli propose l’incarico di prefetto della congregazione per l’Educazione cattolica, l’allora arcivescovo di Monaco rifiutò spiegando che la conoscenza delle università tedesche era diversa da quella degli istituti situati nelle altre parti del mondo. Due anni più tardi, nel 1981, Giovanni Paolo II lo convocò a Roma dicendogli che l’avrebbe voluto prefetto dell’ex Sant’Uffizio. Anche stavolta, Ratzinger disse no. O meglio, si mostrò disponibile a patto di poter continuare a pubblicare: “Avevo posto una condizione che sapevo non era possibile soddisfare”. Il Papa rimase spiazzato, disse che ci avrebbe pensato. Due mesi dopo, nuova convocazione: Wojtyla, raggiante, gli disse che avrebbe potuto continuare a scrivere e pubblicare. “A quel punto non potevo più rifiutarmi”. 

  
Seguì l’impegnativo trasloco, l’attesa per l’arrivo a Roma della sorella Maria, le cene solitarie alla trattoria “Cantina tirolese”. E il rapporto con il Pontefice polacco che si rafforzava. Non potevano essere più diversi, ricorda il biografo: “Grande e grosso l’uno, piccolo ed esile l’altro. Estroverso l’uno, introverso l’altro. All’emotività di Wojtyla si contrapponeva la razionalità di Ratzinger. Il polacco era uno sportivo, cosa che il bavarese decisamente non era. Uno era devoto in particolare di Maria, l’altro di Gesù. Nessuno avrebbe potuto scambiarli per fratelli. Wojtyla era un personaggio appassionato, pieno di fascino e talento recitativo, che sapeva infondere euforia in coloro che cercavano Dio. Ratzinger era un uomo delicato e sensibile, un pensatore disciplinato e geniale, solido e fidato, ma senza ambizioni, tranne quella di poter forse scrivere un giorno una grande cristologia”. Eppure, la Storia avrebbe detto che quei due erano fatti per lavorare assieme, fino alla fine. Ratzinger si districò tra le tensioni a destra con i lefebvriani e a sinistra con i teologi della liberazione, sempre con il sostegno del Papa. Il problema vero non erano i gruppi che rivendicavano chi un ritorno impossibile al passato e chi una fuga in avanti. Tutt’altro: “La mia impressione è che tacitamente si vada perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà ‘Chiesa’ senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono più che si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche presso alcuni teologi la Chiesa appare come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento”. Di nuovo tornano tutti i paletti fissati prima e dopo il Concilio, quando Ratzinger si definiva progressista smarcandosi però da quanti sbandieravano un progressismo devastatore, quello appunto delle messe private con il bicchiere di vino in mano. E tale resterà l’orientamento nei decenni successivi; la diagnosi sempre la medesima: “La cristianità ha subìto una tremenda perdita di importanza”, c’è il “pericolo di dittature anticristiane”, la Chiesa è “soffocata dal suo potere istituzionale”, “si deve dire addio all’idea di una Chiesa popolare”. “La Chiesa ha bisogno di una rivoluzione della fede. Non deve allinearsi allo spirito del tempo. Per preservare il suo bene, deve separarsi dai suoi beni materiali”. Concetti chiari anche all’inizio del Terzo millennio, quando la Dichiarazione Dominus Iesus della congregazione per la Dottrina della fede sull’unicità e universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo e della Chiesa diede fuoco alle polveri. Dalla Germania soprattutto, con Hans Kung che definiva Giovanni Paolo II “figura incartapecorita” che imponeva giuramenti di fedeltà simili “alle lettere con cui si giurava la propria fedeltà a Hitler”. Il documento, che sarà poi difeso da Wojtyla all’Angelus, chiariva che per i cattolici “deve essere fermamente creduta l’affermazione che la pienezza di Dio vive davvero in Gesù Cristo”. Naturalmente, nel mirino finì l’allora prefetto che però chiarì di non aver mai scritto quel testo: “Ho collaborato, apportando alcune revisioni critiche e cose del genere. Ma non ho scritto nessuno dei documenti, nemmeno la Dominus Iesus”. Più di un colpo fu assestato contro Ratzinger. A proposito del concistoro per la creazione di nuovi cardinali, nel 2001, la Zeit scrisse che “questo non è stato solo il primi concistoro, la prima creazione di nuovi cardinali nel Terzo millennio appena iniziato; è stata anche la fine di un’epoca. E quest’epoca porta il nome di Ratzinger”. La storia sarebbe andata in tutt’altra direzione. Martedì 19 aprile del 2005 fu eletto Papa con il nome di Benedetto XVI. “C’è stato un momento in cui ha veramente preso in considerazione la possibilità di rifiutare?”, domanda Seewald. “Oh sì, sì. Veramente l’ho fatto in continuazione. Ma in qualche modo sapevo che semplicemente non mi era permesso dire no”. Neppure quella volta, soprattutto quella volta. Il resto è cronaca. Gli anni del pontificato, quelli più conosciuti. I grandi discorsi, le folle, la trilogia su Gesù di Nazaret, le encicliche profondissime. Il tempo, anche, dei fendenti scagliati da un mondo pronto a colpire lui per colpire la Chiesa di Cristo. Fino a quel 28 febbraio di quasi otto anni fa, il viaggio in elicottero verso Castel Gandolfo: “Ero molto commosso. La cordialità del commiato, anche le lacrime dei collaboratori. Sulla casa ‘Bonus Pastor’ campeggiava l’enor- me scritta ‘Dio gliene renda merito’... e poi le campane. In ogni caso, mentre mi libravo lassù e sentivo il suono delle campane di Roma sapevo che potevo ringraziare e che lo stato d’animo di fondo era la gratitudine”. L’epilogo, l’ultimo discorso dalla villa pontificia, con il sipario pronto a calare su 2.864 giorni di pontificato. Parole che, rilette ora, rendono meno misteriosi tutti i gesti, gli interventi e gli scritti del Papa emerito: “Non sono più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità”. Il pensiero torna allora a quei discorsi radiofonici di fine anni Sessanta, dove il buio lasciava comunque intravedere, pian piano, la luce: “La Chiesa troverà di nuovo con piena convinzione ciò che è la sua essenza, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nella presenza dello Spirito fino alla fine del mondo. Io sono certo di ciò che rimarrà alla fine, non la Chiesa del culto politico, ma la Chiesa della fede. Una Chiesa che non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a pochi anni fa, ma una Chiesa che conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.

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