(foto LaPresse)  

La caccia ai cristiani d'India

Arresti e minacce, chiese vandalizzate e roghi di libri. Cronaca di una persecuzione benedetta dallo stato

Matteo Matzuzzi

Sempre più stati indiani adottano leggi “anti conversioni”. L’obiettivo è chiaro: colpire chi lascia l’induismo e favorire chi compie il passaggio inverso

L’Asia è l’ineluttabile destino della Chiesa, con i suoi spazi sconfinati e i suoi popoli da attrarre a Cristo. Terra di missione da secoli, complessa e non di rado sfuggente. Terra anche di martirio, nel passato e nel presente. Quando si pensa alla persecuzione in guanti bianchi, quella che per essere efficace non ha bisogno dei roghi o delle decapitazioni come avviene in altre regioni del mondo (si pensi alla Nigeria, solo per citare un caso), il primo pensiero va alla Cina. Vescovi che spariscono da un giorno all’altro, libertà che resta una chimera nonostante i sorrisi dei maggiorenti e la loro apparente affabilità, Hong Kong che non è più libera neppure di lasciare in bella vista le statue che preferisce. Storia nota, cruda nella sua realtà ancorché mitigata dalle diplomazie che ritengono realisticamente impossibile e del tutto utopico fare a meno di Pechino. Eppure, in Asia c’è anche l’India, la “nazione grande e nobilissima” che Paolo VI volle visitare nel suo secondo viaggio internazionale, nel dicembre del 1964. Complessa e contraddittoria, caotica e dinamica.

 

Già lo scorso anno la Commissione americana per la libertà religiosa nel mondo classificava l’India tra i paesi  messi peggio, in compagnia di Corea del nord, Arabia saudita, Pakistan e Cina. Da tempo l’escalation contro le minoranze religiose (i cristiani sono circa 27 milioni, poco più del due per cento della popolazione) anziché diminuire aumenta e gli attacchi contro i non induisti formano un elenco sempre più lungo. Fino allo scorso ottobre ammontavano a trecento gli attacchi documentati contro i cristiani nel 2021. A peggiorare la situazione si è messa la legge “anti conversioni” già approvata in otto stati indiani su ventotto e in procinto di essere copiata anche da altri, che intanto si danno da fare con sentenze di tribunali e ordinanze. Il tutto si unisce al Citizenship Amendment Act, la nuova legge sulla cittadinanza promulgata alla fine del 2019 e fortemente sostenuta dal premier Narendra Modi. A essere particolarmente penalizzata è la minoranza musulmana, che non rientra tra le categorie “privilegiate” in grado di ottenere la cittadinanza indiana dopo solo sei anni di permanenza nel paese. Per tutti gli altri, gli anni restano undici. Quasi il doppio, tant’è che  la Chiesa cattolica locale fin da subito aveva parlato di normativa “apertamente discriminatoria”. Si tratta, secondo autorevoli osservatori, di una legge che “esprime perfettamente l’indirizzo filo induista e anti musulmano seguito in questi anni dal governo, guidato dal nazionalista Modi”, come sottolineava la Civiltà Cattolica in un articolo pubblicato nel giugno del 2020. Ora è la volta dei provvedimenti che puniscono le conversioni.

 

Le nuove leggi non menzionano in modo esplicito né il cristianesimo né l’islam, ma l’obiettivo è chiaro: colpire chi lascia l’induismo e concedere invece magnanimità a chi fa il passaggio inverso. Lo ricorda il rapporto sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che soffre: “Queste leggi penalizzano le fedi minoritarie, come è divenuto evidente nel 2015 quando la Corte suprema ha stabilito che una persona che si ‘riconverte’ dal cristianesimo all’induismo ha diritto ad alcuni benefici (da cui i cristiani sono normalmente esclusi) se gli antenati del convertito appartenevano a una casta riconosciuta e se la comunità accetta nuovamente il convertito dopo la ‘riconversione’. A essere punite sono le conversioni fatte con la forza, l’inganno o l’induzione. Un po’ come accade nel vicino e storicamente nemico Pakistan. La normativa in vigore in alcuni stati prevede addirittura che debba essere presentata una sorta di richiesta di conversione sessanta giorni prima del “passaggio” da una religione all’altra. Un puro affare burocratico, dunque. Il tutto così vago che, con interpretazioni rigide e letterali, si potrebbe considerare illegale perfino l’attività della Chiesa.

 

Il giorno di Natale, la statua di Cristo nella chiesa del Santo Redentore ad Ambala (stato di Haryana) veniva distrutta. Due giorni prima, nel Karnataka, una chiesa è stata presa d’assalto e la statua di sant’Antonio  vandalizzata. Qui una legge che scoraggia le conversioni dall’induismo non c’è ancora, ma è questione di settimane: il provvedimento è già all’ordine del giorno dell’Assemblea legislativa locale. “Con questo, diventano quaranta gli attacchi avvenuti nel 2021 nel Karnataka, che è ormai il terzo stato indiano per numero di violenze contro i cristiani”, ha detto ad Asia News Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians: “La minuscola comunità locale si trova ad affrontare continuamente vandalismi, false accuse, arresti”. George fa un paragone con la pandemia e osserva che “non ci troviamo più solo ad affrontare il Covid, ma anche il virus dell’intolleranza contro i cristiani, alimentato dalla legge anti conversioni”. Cronaca quotidiana, insomma, che non ha destato l’attenzione occidentale finché a essere finite le mirino sono state le missionarie della carità di santa madre Teresa di Calcutta. Qui non si tratta di singoli episodi vandalici, di qualche petardo o scarpa lanciati contro i portali delle chiese. La scelta di bloccare i conti delle missionarie è stata presa dall’alto, da chi soffia sul fuoco dell’indentitarismo e della purezza religiosa. Il ministero dell’Interno ha vietato alla congregazione di ricevere finanziamenti dall’estero in quanto “mancherebbero i requisiti di ammissibilità” per poter accedere ai fondi e alle donazioni straniere. Ventiduemila tra dipendenti e ospiti dei centri in cui operano le suore sono rimasti senza soldi. Le autorità spiegano che vanno prima verificate eventuali irregolarità, ma secondo l’opinione di molti osservatori il tutto si ricollegherebbe alle norme “a protezione” della maggioranza indù. 

 

Dopotutto, a metà dicembre, nel Gujarat le missionarie della carità sono state denunciate perché sospettate di alimentare la conversione alla religione cristiana. L’accusa: due donne sarebbero state costrette a indossare collane con il crocefisso, a pregare, a partecipare a celebrazioni religiose e a mangiare carne. Le responsabili della congregazione di Ahmedabad, dove si è verificato il caso, rispediscono tutto al mittente: “Ospitiamo ventiquattro ragazze senza famiglia, che altrimenti si troverebbero sulla strada. Partecipano alla nostra vita e stanno con noi mentre preghiamo o diciamo messa, ma nessuna viene costretta a farlo o a convertirsi”, si legge su Avvenire. Nel Gujarat, molto clamore aveva ricevuto la notizia secondo cui in uno dei centri di assistenza delle suore di madre Teresa “erano state ritrovate tredici Bibbie” e le ragazze ospitate “costrette a leggere il Vangelo, recitare preghiere cristiane e indossare croci al collo”. Il tutto nel clamore mediatico che contribuisce solo a esasperare gli animi. 

 

Si legge già citato rapporto sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che soffre: “A partire dal 2014 e con sempre maggiore frequenza, le autorità indiane si sono servite della legge sulla regolamentazione dei contributi esteri del 2010 per congelare i conti bancari di diverse organizzazioni e impedire loro di accedere a finanziamenti dall’estero a sostegno delle proprie attività Molti attivisti ritengono che l’attuale governo abbia usato la norma in modo selettivo per colpire le organizzazioni non governative affiliate a comunità religiose minoritarie, causando ad esempio la chiusura di organizzazioni umanitarie e di sviluppo cristiane. I regolamenti esistenti, basati sul Codice penale, permettono al governo di trattare le ong religiose con maggiore – e iniqua – severità.  A essere attaccata è anche la Chiesa cattolica indiana, rea secondo la propaganda di spingere sulle conversioni forzate e per questo sempre più limitata nell’esercizio della sua missione. E’ sempre più frequente il divieto, mascherato da ragioni di sicurezza, di celebrare pubblicamente le festività. Non è un caso che a oggi le diocesi vacanti in attesa della nomina del legittimo vescovo siano ben ventitré (il tredici per cento). Enormi le difficoltà a procedere con gli avvicendamenti episcopali

 

Lo scorso 30 ottobre, il premier Narendra Modi – che in sette anni mai aveva chiesto udienza – è stato ricevuto dal Papa in Vaticano. Cinquantacinque minuti di colloquio sintetizzati da un comunicato assai scarno e dai più definito poco “caloroso”: poche righe e nessun accenno ai temi toccati, come accade di consueto. Modi, che è leader del partito nazionalista indù Bjp (Baratiya janata party, Partito del popolo indiano), appena uscito dai sacri palazzi scriveva su Twitter di aver invitato il Papa a visitare l’India. E’ probabile che nel corso dell’udienza si sia discusso anche della  legge anti conversioni, considerato che sono ormai più di venti le persone arrestate con l’accusa d’aver fatto proselitismo. Preti, educatori, insegnanti. Bastano il sospetto, una denuncia, una delazione. Un mese fa, ricordava Tempi, cinquecento persone armate di pietre e spranghe dava l’assalto a una scuola gestita dai Fratelli missionari del Malabar di san Francesco d’Assisi. La loro colpa? Aver convertito otto studenti la notte di Tutti i Santi. 

 

Lo scorso luglio moriva, in un ospedale gestito dalle suore orsoline di Maria Immacolata, il padre gesuita Stan Swamy. Nell’ottobre del 2020 era stato arrestato con l’accusa di terrorismo per il coinvolgimento nei disordini scoppiati nel 2018 a Bhima-Koregaon, nello stato del Maharashtra. Attivista per i diritti delle popolazioni tribali, l’ottantaquattrenne padre Stan, malato di Parkinson, era stato subito fermato insieme ad altri quindici attivisti. Mentre in tribunale si discuteva la scarcerazione su cauzione, lui – che aveva sempre respinto ogni accusa e per la cui causa si era mobilitata anche la gerarchia cattolica indiana – moriva in un letto d’ospedale. 


“Vogliono rimuoverci dalla società”, ha detto un contadino cristiano intervistato dal New York Times, che alla questione indiana ha dedicato di recente una lunga inchiesta. Le testimonianze sono drammatiche: ronde anticristiane girano di villaggio in villaggio, assaltano chiese, danno fuoco a libri – anche non sacri – sul cristianesimo, attaccano scuole e picchiano i fedeli. “In molti casi – scrive il Nyt – la polizia e i membri del partito di governo indiano contribuiscono” alle violenze, come risulta “da documenti ufficiali e decine di interviste e testimonianze. Chiesa dopo chiesa, lo stesso culto è diventato pericoloso nonostante la libertà di religione sia protetta costituzionalmente”. Se le comunità storicamente più numerose e radicate a Goa e nel Kerala godono di maggiore libertà, a subire la persecuzione sono soprattutto i cristiani che abitano negli stati centro-settentrionali: è lì che la pressione è maggiore anche perché – seppure con numeri ancora molto esigui – gruppi evangelici stanno riuscendo a fare breccia tra gli indù di casta inferiore. E basta anche questo “poco” a infrangere il sogno di una nazione religiosamente pura. Ci sono storie di pastori protestanti terrorizzati, che battezzano di notte, in segreto. Ci si inventa di tutto, nella modernità: piccole audio-bibbie scambiabili per minuscole radio a transistor sono consegnate ai contadini poco o per nulla istruiti, che così ascoltano la Parola di Dio mentre arano i campi. E la domanda del contadino è sempre la stessa: “Ma che male facciamo?”. 

 

Sbaglierebbe chi sbrigativamente classificasse i persecutori nella categoria degli esagitati – magari analfabeti – imbevuti di fanatismo e disposti a tutti pur di condannare alla damnatio memoriae Nehru e il suo sogno di un’India laica e multiculturale. Non ci sono, infatti, solo le ronde. Ci sono anche eserciti di avvocati e professionisti, legali in giacca e cravatta che giorno dopo giorno presentano ricorsi, denunciano, trascinano in tribunale organizzazioni cristiane e membri delle stesse. Giudici che a volte si armano d’orribile ingegno, come quando vietano ai non indù di avvicinarsi ai pozzi comunitari nei remoti villaggi dell’interno, o quando studiano lockdown ad hoc per vietare alle minoranze di uscire di casa nei giorni in cui queste celebrano le loro festività. Nelle zone rurali, come a Bilawar Kalan, i saggi del villaggio hanno deciso che ogni famiglia che consentirà a dei cristiani di entrare in casa loro dovrà pagare dazio: 130 dollari. Una multa che va di pari passo alla persuasione: convertitevi all’induismo altrimenti sarete esclusi dalla vita sociale, nessuno vi sposerà, nessuno assisterà al vostro funerale, nessuno comprerà al mercato la vostra merce.  Dilip Chouhan, con un ufficio in una copisteria in una città del Madhya Pradesh (qui la legge contro le conversioni prevede il carcere fino a dieci anni, ed è la più severa del paese), spiega al New York Times che lui è orgoglioso di quel che fa, e cioè di organizzare raid contro le chiese fucile in spalla. Poco spazio alle trattative e al dialogo: quando parla dei cristiani, si mette a ridere mentre pronuncia la parola “credenti”. Il terreno per un’intesa, insomma, non può esserci. Chouhan dice che lui e i suoi sodali (in tutto ammonterebbero a cinquemila “vigilanti”) usano Whatsapp e che davanti alle loro azioni la polizia chiude entrambi gli occhi. Dopotutto, aggiunge, “il Bjp è interessato alla grande a questo problema”. Una lettera di un alto funzionario di polizia del Chhattisgarh lo conferma. Recita concisa: “Vigilate costantemente sulle attività dei missionari cristiani”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.