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L'Iran, un bel problema anche per il Papa

Matteo Matzuzzi

La Santa Sede aveva scommesso tutto su Teheran per stabilizzare la regione

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Roma. La preoccupazione maggiore della Santa Sede dopo l’eliminazione del “generale dei generali” iraniano, Qassem Suleimani, è che la Terza guerra mondiale a pezzi, così come l’ha definita più volte Papa Francesco, trovi altro terreno fertile per diffondersi in aree geografiche sempre più vaste. E’ il problema di comprendere le conseguenze, quel che accadrà ora non solo nel quadrante del vicino e medio oriente, ma anche altrove, dall’Asia orientale all’Africa. E’ in questo senso che vanno lette le parole pronunciate da Bergoglio domenica all’Angelus, quando ha richiamato tutti all’autocontrollo.

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Roma. La preoccupazione maggiore della Santa Sede dopo l’eliminazione del “generale dei generali” iraniano, Qassem Suleimani, è che la Terza guerra mondiale a pezzi, così come l’ha definita più volte Papa Francesco, trovi altro terreno fertile per diffondersi in aree geografiche sempre più vaste. E’ il problema di comprendere le conseguenze, quel che accadrà ora non solo nel quadrante del vicino e medio oriente, ma anche altrove, dall’Asia orientale all’Africa. E’ in questo senso che vanno lette le parole pronunciate da Bergoglio domenica all’Angelus, quando ha richiamato tutti all’autocontrollo.

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La mossa americana non è piaciuta in Vaticano, e quel che si pensa oltretevere l’ha scritto Avvenire sabato in prima pagina: “Un’uccisione a freddo che – al di là delle pur ineludibili questioni morali legate all’uso dei droni come freddi cecchini tecnologici – rappresenta un’escalation dalle conseguenze difficilmente valutabili. E che riflette l’atteggiamento incomprensibile e indifendibile dell’Amministrazione Trump, la quale sembra procedere ormai senza alcuna seria pianificazione strategica, per colpi di testa, mosse impulsive, in balìa di consiglieri improvvisati e radicali”. Non è un caso che il prudente nunzio a Teheran, mons. Leo Boccardi, abbia detto subito che “le regole del diritto devono essere rispettate da tutti”. Una dichiarazione che – chissà quanto volutamente – ricalca quella dell’ambasciatore iraniano all’Onu, Majid Takht Ravanchi: “Si tratta di una grave violazione dei princìpi di diritto internazionale, compresi quelli stipulati nella Carta delle Nazioni Unite”. 

 

Una risposta sproporzionata, insomma, alle pur serie provocazioni del regime degli ayatollah nei confronti degli Stati Uniti, ultima delle quali è stato l’assedio all’ambasciata americana a Baghdad. Il timore è che un’escalation possa fare tabula rasa della paziente opera di avvicinamento perseguita in questo pontificato da Roma nei confronti delle diverse realtà islamiche: è sufficiente ripassare i viaggi compiuti da Francesco nei quasi sette anni di permanenza sul Soglio di Pietro per capire quanti sforzi siano stati compiuti in tale direzione, il cui compendio è rappresentato dal Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi lo scorso febbraio. Il Papa si è speso parecchio per calmare i venti di guerra nel vicino oriente, anche a costo di puntellare il potere di qualche despota, primo fra tutti Bashar el Assad in Siria. Fu l’intervento pubblico di Francesco, innanzitutto all’Angelus del 1° settembre del 2013, poi con una veglia di preghiera e quindi con una lettera a Vladimir Putin, a fermare i cacciabombardieri che già rullavano sulle portaerei della Nato in navigazione nel Mediterraneo.

 

Non è solo un generico, benché ovviamente nobile, appello alla pace quel che arriva dalla chiesa di Roma. E’ la preoccupazione che una fase di ulteriore instabilità, per di più con la tensione ai massimi livelli tra Washington e Teheran, devasti ciò che era rimasto in piedi, con conseguenze fatali anche per i tentativi di ricomposizione sociale fatti dopo il passaggio dell’orda califfale. Sabato il patriarca di Babilonia dei caldei, il cardinale Louis Raphaël I Sako, ha diffuso una nota in cui definisce gli iracheni “scioccati per quanto accaduto” e terrorizzati che “l’Iraq si trasformi in un campo di battaglia”. Da qui l’invito ad avviare “un dialogo ragionevole e civile” perché il paese possa avere una “vita pacifica, stabile, sicura e normale”.

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Ma c’è un ulteriore elemento che rende se possibile ancora più complessa la situazione: la tradizionale vicinanza della Santa Sede all’Iran, culminata con la visita del presidente Hassan Rohani in Vaticano nel gennaio del 2016. Al termine del colloquio tra Rohani e il Papa, da oltretevere fu diffuso un comunicato in cui si riconosceva “l’importante ruolo che l’Iran è chiamato a svolgere, insieme ad altri paesi della regione, per promuovere adeguate soluzioni politiche alle problematiche che affliggono il medio oriente”. Una lettura che diverge nettamente da quella fatta a Washington. Scriveva a tal proposito Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews, che “l’incontro di Rohani con Papa Francesco ha valore di ‘sdoganamento’ dell’Iran nella comunità internazionale”, addirittura simile al ruolo giocato “dalla segreteria di stato vaticana nel rapporto fra Cuba e gli Stati Uniti”.

 

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Neppure due mesi fa, a Teheran, si è tenuto un incontro (l’undicesimo) tra i rappresentanti del Centro per il Dialogo interreligioso e interculturale della Islamic Culture and Relations Organization e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso sul tema “Musulmani e cristiani insieme per servire gli esseri umani”. Era presente il cardinale Miguel Angel Ayuso Guixot, successore del cardinale Tauran alla testa del dicastero vaticano che s’occupa di dialogo con le altre religioni. La Santa Sede ha scommesso proprio sull’Iran quale fattore di stabilizzazione dell’area, e non certo da oggi: le relazioni diplomatiche risalgono al 1954, favorite anche dall’attitudine della realtà sciita più “aperta” nei confronti delle altre religioni. Diceva nel 2014 il segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, che “il coinvolgimento dell’Iran e il miglioramento delle sue relazioni con la comunità internazionale contribuiranno a favorire anche una soluzione soddisfacente alla questione nucleare”.

 

Il problema è che il fattore di stabilità si è trasformato – o è tornato a essere – il principale destabilizzatore della regione, fomentando rivolte armate qua e là dal Libano all’Iraq allo Yemen e facendo sentire bene la propria presenza nel Golfo Persico. Anche per colpa, si pensa oltretevere, della decisione dell’Amministrazione americana di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, uno strumento che – è la convinzione diffusa in segretaria di stato – avrebbe prima o poi dato i suoi benefici, raffreddando una situazione che da un ventennio è in perenne ebollizione. Per questo, il principale imputato della nuova crisi è il governo americano e ciò non fa altro che allargare ulteriormente il fossato che già lo divide su parecchie e non secondarie questioni dall’agenda del pontificato bergogliano. Giovedì, nel consueto discorso del Papa al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, se ne saprà di più.

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