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In morte del gran diplomatico che sognava di riaprire il Vaticano II

Matteo Matzuzzi

Dalla Ostpolitik a Villa Nazareth. Chi era Achille Silvestrini

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Roma. Achille Silvestrini, cardinale morto giovedì all’età di 95 anni, è stato un grande principe della chiesa del secondo Novecento. Entrò in segreteria di stato regnante Pio XII, è uscito dalla curia romana mezzo secolo dopo, con al governo Giovanni Paolo II. In mezzo, una vita da diplomatico, collaboratore di Agostino Casaroli e della sua Ostpolitik, il lavoro al Concordato del 1984, prefetto della Segnatura apostolica e poi della congregazione per le Chiese orientali. Al centro di tutto, Villa Nazareth, l’istituzione voluta dal cardinale Domenico Tardini nel 1945 per gli studenti meritevoli ma poveri. Sotto la sua guida, il centro è diventato fucina di leader da lanciare sulla scena politica, di ecclesiastici da portare con pazienza a scalare le gerarchie, di compromessi da negoziare. La Provvidenza ha voluto che la sua morte avvenisse proprio nelle ore in cui uno dei prodotti di Villa Nazareth, Giuseppe Conte, saliva le scale del Quirinale per ricevere dalle mani di Sergio Mattarella l’incarico di formare il suo secondo governo, quello “di svolta”.

   

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Silvestrini è stato il leader, indiscusso, dall’ala progressista curiale. Insieme a Carlo Maria Martini sosteneva l’esigenza di tornare indietro al Vaticano II, dando a esso compimento, perché “è necessario e urgente cercare un nuovo linguaggio per parlare all’umanità di oggi e in particolare alle nuove generazioni e dare risposte adeguate alla modernità”, diceva cinque anni fa in un’intervista ad Avvenire. “La sfida che attende la chiesa – aggiungeva – è proprio quella di uscire dai ristretti ambiti delle sagrestie”. Era contento che al Soglio di Pietro ci fosse Francesco, il quale rappresentava l’identikit a lungo agognato come capo supremo della chiesa. “L’elezione di Bergoglio, che si lega idealmente al magistero dei suoi diretti predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ci sollecita forse ora più che mai a riprendere le tematiche che erano al centro di tante discussioni conciliari; a riscoprire, facendo tesoro delle lezioni di uomini profetici come Lercaro e Dossetti, alcune priorità costitutive dell’identità ecclesiale, impressa dal Vaticano II, come l’opzione preferenziale per i poveri, il proseguimento della pace tra i popoli e il dialogo con i lontani e i non credenti”. Chiedeva che la chiesa cogliesse i segni dei tempi, guardando in particolare la vitalità delle chiese dell’Asia e dell’America latina (non è trascurabile la dimenticanza relativa all’Africa, la cui crescita è assai più rilevante rispetto a quella sudamericana, dove le sette non accennano ad allentare la morsa). Esplicito e diretto come suo costume. Con Giovanni Paolo II, il Pontefice che lo creò cardinale, il rapporto era buono: condivisione della linea politica da tenere con i paesi dell’est sotto il tacco dei regimi fedeli a Mosca, divergenze forti sul resto della politica ecclesiale.

 

Silvestrini era per attualizzare il Concilio – non ne avrebbe disdegnato un altro, il terzo – Wojtyla, no. Non esultò per l’elezione di Joseph Ratzinger nel 2005, lui insieme Godfried Danneels cercava altro, qualcuno che potesse riaprire i faldoni del Vaticano II impolverati. Sulla Cina, nessun dubbio: la chiesa doveva fare tutto il possibile (e anche di più) per imbastire un dialogo con Pechino. Anche a costo di essere accusata di aver ceduto al regime. Lo schema, adeguato alle ovvie differenze, era quello che aveva permesso alla chiesa di abbattere la Cortina di ferro: trattare, negoziare, scendere a patti. Una perfetta identità di vedute con mons. Claudio Maria Celli, più volte mandato in missione nel grande paese asiatico e che negli ultimi anni ha coadiuvato Silvestrini alla guida di Villa Nazareth. L’ultimo sogno del diplomatico aveva a che fare proprio con Pechino: “Sarebbe bello un giorno non lontano poter celebrare proprio in Cina la Giornata mondiale della gioventù. Un sogno che speriamo diventi realtà”.

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