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La libertà religiosa un bene per tutti

Matteo Forte*

Riflessioni sul documento della Commissione teologica internazionale sul ruolo della fede davanti alle sfide contemporanee

La libertà religiosa è per la Chiesa il tema centrale nel rapporto con lo Stato post-moderno e la crisi delle democrazie liberali. Lo spiega magistralmente un documento densissimo della Commissione teologica internazionale (“La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee”) approvato dal prefetto per la dottrina della fede, cardinal Ladaria, e dallo stesso papa Francesco.

 

  

Si tratta di un riadattamento al contesto attuale del principio enunciato dal Vaticano II con la Dignitatis humanae, e che propone riflessioni innovative rispetto ad allora e imprescindibili per chi ancora si impegna nell’agone politico. Per il documento redatto dagli studiosi della Cti “si tratta della questione culturale probabilmente più decisiva per la ricomposizione della moderna civiltà, dell’economia e della tecnica con l’umanesimo integrale della persona e della comunità”, tanto che da ciò ne va altresì dell’“umana credibilità della fede cristiana” (cfr. n. 30). Il documento conciliare parlava ad un mondo uscito da due conflitti mondiali, in mezzo ai quali si era manifestato il neopaganesimo di fascismo e nazismo, e segnato ancora dalla violenza del totalitarismo comunista che combatteva le fedi. Notevole da questo punto di vista fu il contributo al riguardo della cosiddetta Chiesa del silenzio e in particolare di Karol Wojtyla, futuro Giovanni Paolo II.

 

Oggi il contesto storico è profondamente mutato e da qui nasce la necessità di ricentrare il criterio della libertà religiosa nel rapporto con il mondo e il potere politico. Le dottrine ateo-materialistiche sono state sconfitte con la caduta del muro di Berlino, ma non per questo i rischi sono venuti meno. Il documento giunge a parlare apertamente di “totalitarismo morbido” a proposito dell’attuazione di una certa accezione democratico-liberale di Stato di diritto e soprattutto “della regia tecno-economica della società civile” (cfr. n. 4). Entrambe – secondo i teologi estensori del documento – sono sorrette da “una ideologia della neutralità che, di fatto, impone l’emarginazione, se non l’esclusione, dell’espressione religiosa dalla sfera pubblica. E quindi, dalla piena libertà di partecipazione alla formazione della cittadinanza democratica” (n. 5). Esclusione che evidentemente svela “l’ambivalenza di una neutralità della sfera pubblica soltanto apparente e di una libertà civile obiettivamente discriminante”.

 

A fronte di simile concezione la Chiesa ricorda che “la cultura civile deve superare il pregiudizio di una visione puramente emozionale o ideologica della religione. La religione, a sua volta, deve essere incessantemente stimolata ad elaborare in un linguaggio umanisticamente comprensibile la visione della realtà e della convivenza che la ispirano” (n. 7).

 

Con questo passaggio sembra di risentire nel documento della Cti il discorso che Benedetto XVI tenne a Westminster di fronte ai parlamentari britannici nel settembre del 2010: ragione e fede devono co-esistere e purificarsi a vicenda. Per esempio: per la vita della società è bene che il potere politico veda nell’esperienza religiosa non un problema di cui liberarsi, ma quella “che custodisce il piano di realtà in cui la convivenza sociale vive e affronta i temi e le contraddizioni che sono propri alla condizione umana (l’amore e la morte, il vero e il giusto, l’incomprensibile e lo sperabile)” (n. 46). Infatti senza più alcuna esperienza religiosa, senza cioè alcun “presidio di umanità insostituibile”, come farebbe una comunità civile a resistere “al nichilismo della morte”?

  


 

Di fronte alla drammatica circostanza di un terremoto, come ad esempio quello di dieci anni fa in Abruzzo, o ad un grave attentato terroristico piuttosto che alla visione di Notre Dame in fiamme,
“il tema del senso e della destinazione ultima dell’umano appare
in tutta la sua evidenza di questione pubblica   


 

Di fronte alla drammatica circostanza di un terremoto, come ad esempio quello di dieci anni fa in Abruzzo, o ad un grave attentato terroristico piuttosto che alla visione di Notre Dame in fiamme, “il tema del senso e della destinazione ultima dell’umano appare in tutta la sua evidenza di questione pubblica. E la “forma religiosa” di questo riconoscimento si legittima per così dire da sé, come una vera “funzione pubblica”, anche nella cornice dello Stato laico” (n. 47). Tuttavia come è sbagliato concepire una convivenza pubblica che faccia a meno della originaria dimensione religiosa dell’uomo, così una fede che non si lasci purificare dalle esigenze della ragione diventa nella peggiore delle ipotesi settarismo e fanatismo. O, nella migliore delle ipotesi, spunto emotivo per operatori sociali. Non a caso Francesco, celebrando il 14 marzo 2013 la sua prima messa da pontefice nella cappella Sistina, ricordò ai cardinali elettori che “se non confessiamo Gesù Cristo qualcosa non va, diventiamo una ong pietosa, ma non la Chiesa sposa di Cristo”.

 

LO STATO NEUTRALE COME “IMITAZIONE LAICISTA” DELLA TEOCRAZIA

Del resto questo è il rischio più concreto che sta correndo il cristianesimo nell’Europa odierna. Perché non basta mostrare zelo con quanti approdano sul nostro territorio da paesi stranieri, aspetto importante di una presenza sociale cristiana che il documento non sconfessa affatto. A fronte dell’“imponente stagione delle migrazioni di interi popoli” occorre invero anche accrescere la consapevolezza di ciò che “la storia sembra imporre qui”, cioè “la vera e propria invenzione di un nuovo futuro per la costruzione di modelli del rapporto fra libertà religiosa e democrazia civile” (n. 9).

 

Se pensiamo all’insidia che il radicalismo islamico rappresenta per tanti giovani nelle periferie delle nostre città, anche quelli di seconda generazione che partono come foreign fighters, piuttosto che a quella dell’islamismo politico che – sotto l’influenza di potenze del golfo – mira a condizionare la mediazione tra minoranze di stranieri e istituzioni locali dei paesi d’accoglienza per introdurre elementi di sharia anche nei nostri ordinamenti (per esempio piscine e mezzi pubblici separati per le donne; la poligamia, ecc.), forse ci renderemmo davvero conto dell’urgenza di ripensare il rapporto tra libertà religiosa e democrazia.

 

Se ascoltassimo di più gli insistenti appelli che il coraggioso vice-presidente della Conferenza degli imam di Francia, Hocine Drouiche, lancia all’intellighenzia europea ad ogni piè sospinto, potremmo renderci conto meglio di quanto “il tesoro di cultura e di fede che abbiamo ereditato nei secoli, e che abbiamo accolto liberamente”, possa “generare un umanesimo realmente all’altezza dell’appello della storia, capace di rispondere alla domanda di una terra più abitabile” (n. 9). Sembra quasi una contraddizione che una società sedicente laica accetti l’emergere di movimenti fondamentalisti e non colga la richiesta d’aiuto, finendo per isolarlo, di un ministro del culto musulmano da anni sotto scorta per le sue prese di posizione contro lo jihad. Eppure non lo è, perché – come spiegano bene ancora i teologi del Cti – la pretesa “neutralità della sfera pubblica, infatti, non si limita […] a garantire l’uguaglianza delle persone di fronte alla legge, ma impone l’esclusione di un determinato ordine di preferenze, che associano la responsabilità morale e l’argomentazione etica ad una visione antropologica e sociale del bene comune” (n. 63). In questo modo le democrazie occidentali e le teocrazie mediorientali islamiste finiscono per essere due facce della stessa medaglia: “lo Stato tende ad assumere, in tal caso, la forma di una “imitazione laicista” della concezione teocratica della religione, che decide l’ortodossia e l’eresia della libertà in nome di una visione politico-salvifica della società ideale”.

 

Così si viene a creare per i cristiani nei fatti una “biforcazione” tra la dimensione privata della vita ed un’altra in cui “iniziano a vedersi, nella sfera pubblica, soltanto come membri di quella polis “moralmente neutrale” cui è capitato per caso di formarsi in un contesto storicamente cristiano” (n. 65). Cristallizzare una simile concezione significa propriamente ridurre la “libertà di coscienza e di espressione religiosa”. Una forma di violazione dei diritti più sottile, ma che non si discosta poi troppo da quelle più palesi di nazioni in cui i cristiani sono minoranze perseguitate e trascinate in tribunale per reati come quello di blasfemia. Per questo il documento ritiene necessario che, “pure in alcuni paesi che si ritengono democratici” (n. 71), “le leggi civili non obbligano in coscienza quando contraddicono l’etica naturale e perciò lo Stato deve riconoscere il diritto delle persone all’obiezione di coscienza” (n. 72).

 

IN MEZZO, TRA GLOBALISMO E RIPIEGAMENTI NAZIONALISTI

La reazione alla debolezza umanistica del sistema fa persino apparire giustificato per molti (soprattutto giovani) l’approdo ad un fanatismo disperato: ateistico o anche teocratico. L’incomprensibile attrazione esercitata da forme violente e totalitarie d’ideologia politica, o di militanza religiosa, che sembravano ormai consegnate al giudizio della ragione e della storia, deve interrogarci in modo nuovo e con maggiore profondità di analisi” (n. 5).

 

Spesso si tende a leggere il montare di movimenti di protesta o i cosiddetti populismi attraverso categorie politiche del passato, cosicché non di rado si sente gridare “dagli al fascista!” nel dibattito politico attuale. Eppure il documento della Cti non manca di suggerire una lettura meno superficiale circa la radicalizzazione che sembra caratterizzare i più nelle società post-moderne. La contestazione alle democrazie rappresentative occidentali può spiegarsi nella maggior parte dei casi quale risposta confusa e scomposta alla percepita minaccia alla libertà di coscienza derivante dallo “svuotamento dell’ethos e della cultura che consegue all’applicazione di questa ideologia egualitaria e a-valutativa” (n. 62), in cui dominano solo le procedure e l’adesione a parametri standard.

 

 

È una valutazione simile a quella argomentata da Francis Fukuyama nella sua recente indagine sulla ricerca della dignità e i nuovi populismi (“Identità”, ed. Utet). In casi più estremi, nell’assenza di mediazione ideale e culturale favorita dall’apparente neutralità della sfera pubblica, la radicalizzazione porta a rispondere con la violenza e il terrore all’urgenza di quanto avvertito come problema. È il caso degli Champs-Élysées messi a ferro e fuoco dai gilet gialli o addirittura, secondo l’analisi del sociologo Marco Lombardi, dello stragista di Christchurch in Nuova Zelanda. E tutto ciò rischia solo di essere amplificato dalla rete e dai new media, visti invece da certi populisti come panacea di tutti i mali in quanto rifletterebbero la volontà generale.

 

Certo, se la democrazia perché funzioni necessita di gente che si esprima solo periodicamente con il voto e si accontenti di starsene in disparte mentre gli “esperti” si preoccupano per lei della sua esistenza, allora la lotta è impari con “quello stile emotivo d’interazione” offerto “dalle forme dell’espressione individuale online”, che trascinano dietro di sé “fenomeni di massificazione delle false notizie (fake news), e di polarizzazione della violenza persecutoria (haters)” (n. 50). Se invece la democrazia è qualcosa d’altro, allora anche la trasformazione digitale e le nuove tecnologie possono essere concepite a servizio del “movimento della vita e la partecipazione alla cittadinanza” (n. 54). E ancora una volta bisogna tornare al titolo del documento dei teologi cattolici.

 

La libertà religiosa è ultimamente identificata con la naturale capax Dei (n. 18) propria della persona umana, quella per cui ciascuno per il solo fatto dell’“appartenenza biologica al genere umano” (n. 37) è abilitato “a entrare in una relazione esistenzialmente coinvolgente con il bene, la verità, la giustizia” (n. 18). Perciò esiste una correlazione tra la singola persona e la comunità in cui questa nasce, cresce ed è inserita, tanto che se si danneggia la dignità del singolo si corrompono anche le forme di convivenza (cfr. n. 38).

 

Una significativa novità che il documento La libertà religiosa per il bene di tutti immette nel pubblico dibattito consiste quindi nel recuperare anche un principio cardine della dottrina sociale della Chiesa e che l’Ue ha fatto suo in tutti i trattati, ovvero quello di sussidiarietà. Ma lo recupera dal “di dentro” della libertà religiosa. Significativa al riguardo l’esemplificazione secondo la quale “il soggetto della libertà religiosa non è dunque soltanto il singolo, ma anche la comunità e, in particolare, la famiglia. Di qui il richiamo alla necessità dell’esercizio della libertà nella trasmissione dei valori religiosi attraverso l’educazione e l’insegnamento” (n. 19).

 

Così la sussidiarietà non è solo il principio che spiega i giusti rapporti tra diversi livelli istituzionali (quello comunitario, quello nazionale e quello locale), ma rende tutte le forze sociali in cui la persona si realizza – a cominciare evidentemente dalla famiglia – protagoniste del bene comune secondo un proprio movente ideale posto e proposto alla libertà di tutti. Tutto quanto si muove tra le vicende personali del singolo e le pubbliche istituzioni invera così l’ideale di partecipazione democratica. E ciò vale anche in campo economico, dove il non profit, la cooperazione sociale, le fondazioni di comunità, i titoli di solidarietà e i prodotti finanziari ad impatto sociale, le forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, l’innovazione nelle relazioni industriali, il welfare aziendale e il reinvestimento degli utili in nuova occupazione, formazione e riqualificazione professionale rendono più civile il mercato e la circolazione di capitali più dinamica e meno dipendente dal ricorso a finanziamenti a debito o contributi pubblici. La Chiesa, in un simile sistema di libertà responsabile, concepisce sé stessa quale «principio animatore d’istituzioni intermedie, che concorrono lealmente al sostegno dell’etica pubblica e del legame sociale entro le possibilità e i limiti del governo statuale sul piano nazionale e anche sul piano internazionale» (n. 53). E invitando a contemplare tale pluralità di attori e istituti sociali, essa aiuta altresì ad andare oltre il mero binomio Stato-mercato e ad uscire dalla gabbia dell’alternativa unica tra globalismo promosso dalle élite finanziarie e ripiegamenti nazionalisti.

 

CONCLUSIONI

Si tratta di indicazioni preziose e approfondimenti di un unico criterio, la libertà religiosa per l’appunto, che la Chiesa ribadisce in un momento storico cruciale per il destino del vecchio continente. Momento che coincide con quella che è stata definita la fine di un mondo, qual era l’ordine liberale rimasto vittorioso dopo il 1989. Il documento della Cti non è certo il vademecum da portare nella cabina in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, ma segna senz’altro la via per un rinnovato impegno della comunità cristiana a servizio del bene comune e del rilancio di quel progetto unico nella storia occidentale che è l’unità nella pace di diverse nazioni. Quell’unico che è l’Europa.

*consigliere comunale a Milano