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Nel tempo della clausura 2.0

Costanza Di Quattro

A colloquio oltre le grate con la Reverenda Madre del convento di Ibla. Ha in mano lo smartphone

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E’ sordo il rumore di una porta che si chiude alle spalle. Ha il tonfo plumbeo di una condanna. Suona di eternità. Di giudizio. Di pena.

 

Provate a entrare in questo convento di clausura, incastonato tra le mura barocche di Ibla. Mistica ingannatrice a parte, se pur consci del ritorno subitaneo alla libertà, quel portone che si chiude facendo tremare tutti i cardini spaura il cuore. Viene difficile pensare che dentro le mura antiche ci sia un angolo di mondo condannato a non vedere il resto del mondo. Complice indubbiamente quella letteratura che ha visto nella clausura non una scelta di libertà bensì una costrizione, una morte terrena spesso conclusa con la follia. Da Alessandro Manzoni che affibbiò alla monaca di Monza l’appellativo di “sventurata” fino a Giovanni Verga che in “Storia di una capinera” raccontò il dolore di Maria, giovane novizia costretta alla monacazione. E non sempre di sola fantasia si è parlato purtroppo. Quello della monacazione forzata fu un dato, una verità storica considerevole, una delle tante pagine buie del nostro passato. Interessi economici, tutela dei patrimoni familiari stavano alla base di una scelta così crudele. Spesso, nel caso di condizioni socio-economiche meno agiate, si intravedeva nella monacazione una via di fuga dalla miseria, dalla disperazione di una vita di stenti.

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Quello della monacazione forzata fu un dato, una verità storica considerevole, una delle tante pagine buie del nostro passato

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Chiede scusa, risponde velocemente, riattacca, toglie la suoneria e ripone lo smartphone tra le pieghe misteriose di quell’abito sacro

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In ogni caso, quale che fosse il motivo, i conventi pullulavano di fanciulle, ragazzine offerte a Dio e non chiamate da Lui. Imposte allo sposalizio della castità, della contemplazione, della preghiera.

 

Ma oggi, nel 2018, in questo tempo senza tempo, dove per vivere il mondo basta avere uno smartphone e per entrare nella vita della gente un social network, cosa sarà mai diventata la clausura? Serve? Esiste ancora? Perdura?

 

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“La vita interiore non sta nelle illuminazioni ma nel puro abbandonarsi alla guida dello Spirito Santo”. E’ solo una voce ma anticipa una presenza fisica vera e propria come se quelle mura così spesse fossero piene di occhi e di orecchie.

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Il primo ostacolo è dato dalle grate. Un reticolato fittissimo di ferro intrecciato al ferro impedisce allo sguardo una visione d’insieme. L’occhio deve abituarsi a guardare oltre la grata; un esercizio fisico e mentale all’un tempo, per imparare a vedere oltre l’apparenza o meglio, come scriveva Edgar Allan Poe, per non lasciarsi ingannare “dall’invisibilità dell’evidenza”. E l’evidenza è lei, la Reverendissima Madre che, ieratica e svolazzante, ha accettato di raccontarsi con tutta la libertà che i suoi voti le consentono. All’inizio è un’immagine confusa che pian piano, come quando si attesta il piccolo binocolo da teatro alla propria vista, diventa nitida e chiarissima.

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“Sia lodato Gesù Cristo”. “Oggi e sempre sia lodato”.

 

La conversazione inizia nel migliore dei modi, attraverso la convenzione di un saluto che ha, miracolosamente, il vantaggio di mettere a proprio agio. Già dalle prime battute si palesa una donna colta, ironica, diretta. Si fa fatica a immaginare nel 2018 che qualcuno possa decidere di consegnare liberamente la propria vita alla privazione del mondo, ai silenzi della contemplazione, alla solitudine della preghiera. Verrebbe da chiedere subito cosa offre il sacrificio della clausura a questo mondo, quali vantaggi ricadono sulla terra dalla reclusione dentro le mura protette di un convento.

 

Ma la Reverenda Madre non si lascia cogliere di sorpresa. “Che senso ha la vita claustrale oggi? Immagino sia questo l’oggetto di questa piacevole visita. Ebbene ritengo che oggi sarebbe corretto definirci contemplative più che claustrali: noi contempliamo Dio, offriamo la nostra vita a Lui attraverso la preghiera, il sacrificio, la fedeltà”. E così dicendo si sfila la fede dal dito, la guarda attentamente, varca il confine della grata, la porta oltre quel mondo silenzioso e spiega: “Tra me e una sposa non corre alcuna differenza. Io ho affidato la mia vita a Dio, non vi è sacrificio nella mia scelta. Una sposa affida la propria vita all’uomo che ama, neanche in lei dovrebbe essere presente il sacrificio eppure oggi la parola ‘per sempre’ spaventa. L’idea della ineluttabilità di una scelta definitiva terrorizza. Credo che i pochi rimasti a prendere in considerazione il matrimonio lo facciano nella consapevolezza dell’esistenza dell’istituto del divorzio”.

 

Ironizza sulla cinica realtà dei fatti, indossa nuovamente la fede e riprende: “Non siamo fuori dal mondo, il mondo lo viviamo, siamo informate sui fatti che lo riguardano, sulle sofferenze che lo affliggono, i dolori che lo dilaniano e cerchiamo di contribuire attraverso la preghiera, questa continua comunicazione con Dio che ci porta inevitabilmente a comunicare con gli uomini”.

 

Ci vuole una grande fede per attribuire alla sola preghiera la capacità di interagire con il mondo e in taluni casi persino cambiare, sovvertire e migliorare le cose del mondo.

 

Rassicurante come la sua voce, la Madre Reverendissima continua fluida a conversare senza mai assecondare il filo delle domande ma seguendo, magicamente, quello invisibile dei pensieri.

 

“La preghiera nasce dalla libertà e dall’amore, non dall’obbligo ma dal bisogno interiore. C’è chi intravede in queste grate un ostacolo, chi, come me, un passaggio obbligato verso la libertà. E’ nella preghiera che facciamo esperienza della paternità di Dio e della autentica fraternità con il prossimo fino, come annota San Benedetto ‘alla compunzione delle lagrime’. Ed è dalla preghiera che impariamo a prenderci cura del prossimo. Il senso estremo del nostro pregare è altruistico: avviciniamo a Dio chi, per qualsiasi motivo, non può o non riesce a farlo da sé”. Ma, all’improvviso, ecco il colpo di scena. Il silenzio irreale che intercorre tra una pausa e l’altra è interrotto da uno strano suono di campane, non musicale e caldo bensì metallico ed elettronico. E’ la suoneria di uno smartphone di ultimissima generazione che la nostra carissima Madre sfodera, da chissà quale recondita tasca della tonaca.

 

In un istante infiniti ponti squarciano le grate come la luce fa con le tenebre. L’irreale e mistico luogo senza spazio e senza tempo assume, improvvisamente, una dimensione precisa, chiara, definita. Dove è finita la clausura se le custodi di questo sacrificio hanno in mano l’oggetto che per antonomasia è antitetico alla clausura stessa? Sono solo pochi secondi ma di disarmante naturalezza: chiede scusa, risponde velocemente, riattacca, toglie la suoneria e ripone lo smartphone tra le pieghe misteriose e nere di quell’abito sacro.

 

L’occhio deve abituarsi a guardare oltre la grata, per non lasciarsi ingannare “dall’invisibilità dell’evidenza”, come scriveva Poe

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“Sarebbe corretto definirci contemplative più che claustrali: contempliamo Dio, offriamo la vita a Lui attraverso la preghiera”

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Prima ancora che i pensieri si accavallassero sui pensieri e le parole ne coprissero altre, con placida e preveggente eloquenza la suora riprende: “Noi siamo nel mondo ma non del mondo. La tecnologia ci aiuta a vivere, ci mette in contatto, in relazione con l’universo che ci circonda, ci semplifica la vita e ci agevola in tante cose. Sembrerà strano immaginarlo ma spesso la consultazione delle Sacre Scritture avviene attraverso internet e non tra scale e sgabelli di polverose librerie. Va dunque riconosciuto il grande valore aggiunto di questi ‘benedetti’ strumenti ma anche la grande distrazione che si portano dietro. Riuscire a non farsi fagocitare da questa tecnologica finestra sul mondo significa avere la misura delle cose: la misura di se stessi”.

 

La galoppante evoluzione del mondo ha vinto la resistenza monacale. Una clamorosa Caporetto o una esaltante vittoria? Chi può dirlo. Eppure in quell’istante di verità si è palesata una giustizia. La giustizia della libertà, dell’apertura, della scelta di interpretare una regola con l’intelligenza del pensiero attraverso quel processo evolutivo al quale non si riesce a sfuggire neanche se si è chiusi dentro la cella di un convento.

 

La paura delle grate comincia a lasciare spazio alla consapevolezza di una scelta d’amore. Sul viso della suora 2.0 si allarga un sorriso sereno e complice. “Clausura non significa chiusura rispetto al mondo ma solo un modo diverso di accostarsi a esso: quello di uno sguardo costantemente rivolto a Dio. E’ il richiamo al primato di Dio sull’uomo, all’interiorità rispetto alla dispersione e frantumazione dell’animo umano. La scelta di non possedere nulla e di vivere secondo l’economia del dono non è fuga dal mondo ma un segno di speranza. Non è mero spiritualismo poiché noi consideriamo la corporeità come tempio di Dio. E’ l’amore che pervade la monaca, un amore che sfocia e sfora la storia approdando in Dio-Amore: traguardo perseguibile da ciascuno attraverso la cura di sé, fisica e interiore”.

 

C’è una placida e rassicurante serenità in quelle parole tanto semplici da ricordare quanto complicate da recepire. Il tempo ha smesso di battere il tempo, la sabbia di scorrere dentro la clessidra. Persino la grata ha perso la sua funzione divisoria. E’ diventata un sostegno, una scala alla quale aggrapparsi. Chi è davvero recluso? Chi sta fuori o chi sta dentro? Sarebbe bello conversare ancora a lungo e scardinare quelle sciocche certezze che spesso ci imprigionano e smontare una a una le convinzioni di una libertà che spesso non abbiamo avuto, ma la luce violacea che filtra dai vetri cattedrali segna un tramonto imminente, un ineluttabile finire del giorno. Il tempo è scaduto e garbatamente lo sottolinea la Madre alzandosi e facendo ondeggiare il velo nero sulla spalle dritte.

 

Sarebbe impossibile andarsene senza aver domandato quale fine faranno i conventi, che previsione logica si può ipotizzare per il futuro e la risposta arriva puntuale, lapidaria: “La storia è fatta dagli uomini ma è guidata da Dio. Ciò che oggi può sembrare irrimediabilmente perduto domani magari non lo sarà più. La circuitazione delle nostre preghiere ha anche questo compito; seguire un filo invisibile, fare un giro incomprensibile che alla fine sovverte l’apparente ordine delle cose”.

 

L’immagine di un Dio disordinato che rimette a posto le cose sovvertendo l’apparente ordine nel quale ci illudiamo di vivere è un faro. Una luce, un sorriso.

 

“Sia lodato Gesù Cristo”.

 

“Oggi e sempre sia lodato”.

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