Papa Francesco durante il viaggio in Polonia (foto LaPresse)

Provare a capire (e aiutare) Papa Francesco sull'islam

Aldo Maria Valli

Aldo Maria Valli, spesso critico con la posizione di Bergoglio sul terrorismo islamico prova a difendere le sue parole su guerra e religione. Cercando di capire perché sembrano così "fuori sincrono".

 

Ora mi viene quasi da difenderlo. Il papa, dico. Ora che in tanti lo attaccano per le sue parole sulla guerra che non sarebbe di religione, ora che in tanti rilevano la sua reiterata, ostinata reticenza circa la matrice islamica di sgozzatori, kamikaze, guidatori di camion assassini e assalitori vari, ora che le sue ultime dichiarazioni circa le religioni, che sarebbero tutte di pace e per la pace, hanno provocato proteste e reazioni negative da ogni parte, e prima di tutto dai cristiani d’Oriente, che vivono sulla loro pelle una persecuzione di matrice indubitabilmente religiosa, mi viene da difendere il Papa nel senso di cercare di capirlo.

 

Il sottoscritto è stato tra i primi a denunciare l’inadeguatezza dei commenti papali sulla violenza terroristica e a suggerirgli sommessamente di rileggersi la lectio di Benedetto XVI a Ratsibona, quando Ratzinger, con lungimiranza, mise di fronte l’Islam al problema che questa religione ha con l’uso della spada, cioè della forza e della coercizione. Ricordo di essere stato tra i primi non per rivendicare una primogenitura, che non varrebbe niente, ma solo come dato statistico, per dire che il problema me lo pongo da un bel po’. E adesso, adesso che il problema è davanti a tutti, mi chiedo: perché? Perché Francesco parla così? Perché si limita a denunce generiche e non nomina mai l’Islam? Perché si rifugia nella lettura sociologicamente povera e superata secondo cui dietro questa violenza ci sarebbero solo vili interessi materiali, solo questioni di soldi e di commercio di armi, solo disagi psicologici, culturali e sociali  più o meno indotti dall’Occidente? Perché non dice quello che ormai perfino molti islamici, con infinito dolore, dicono, e cioè che, qualunque sia l’innesco contingente,  la loro religione fornisce la legna perché il fuoco possa divampare? Perché non coglie che le sue parole di generica tolleranza e accoglienza non gli guadagnano il rispetto degli islamisti ma semmai lo accreditano presso di loro come il capo di una comunità religiosa da attaccare ancora di più?

 

«La realtà è superiore all’idea»: così dice Francesco, che ha fatto di questa affermazione uno dei cardini della sua azione spirituale e pastorale. Eppure, nel caso della violenza di matrice islamica, ecco che il papa si contraddice, fino a negare la realtà. Ripeto: perché? È paura della ritorsione? È mancanza di consapevolezza derivata forse dal suo essere sudamericano e quindi meno sensibile a una questione che qui in Europa, in un modo o nell’altro, anche se siamo secolarizzati e ci diciamo atei, viviamo come parte del nostro dna culturale da quando, secoli fa, i nostri avi  presero in mano le armi per respingere i musulmani che volevano invaderci e sottometterci? Oppure è semplicemente un non voler vedere? Ma come può un gesuita, proprio un gesuita, non voler vedere?

 

Le domande sono tante e vanno fatte, una a una, senza paura. Francesco è un pragmatico, come ha dimostrato in molte occasioni, e dunque può essere che nel suo atteggiamento ci sia un calcolo: non alimentare il fuoco, preservare i cristiani, evitare di trasformare la Chiesa cattolica in un soggetto della contesa. Può anche darsi che, in aggiunta a questo calcolo, ci sia davvero la convinzione che tutte le religioni sono di pace e per la pace. In questo caso, verrebbe alla luce una certa sua mancanza di conoscenza dei fenomeni religiosi profondi e in particolare dell’Islam nelle sue diverse forme. Potrebbe anche esserci il desiderio di distinguere tra fede e religione, vedendo la prima come patrimonio individuale e sociale ispirato al bene e la seconda come fenomeno strumentalizzabile a fini ideologici e politici. Ma qui già stiamo sottilizzando, e Francesco non è uno avvezzo a queste distinzioni.

 

Allora, perché? Una risposta che mi viene, e che propongo, è questa: pur non avendo partecipato al Concilio Vaticano II, Francesco è profondamente figlio del Concilio nel senso che mantiene una grande fiducia nel mondo e nei suoi fenomeni e pensa che la Chiesa questi fenomeni li debba sempre e comunque accogliere e accettare piuttosto che fronteggiare e denunciare. Non a caso nel vocabolario di Francesco i verbi accogliere e accompagnare sono così centrali. Sono verbi conciliari, di una Chiesa fiduciosa nei confronti del mondo, che usciva da una fase delle porte e delle finestre chiuse (dove c’era un po’ odore di muffa, come mi disse una volta il cardinale Martini) e desiderava aprirsi alla realtà non per ciò che essa potrebbe essere ma per ciò che essa è, anche dal punto di vista delle diverse fedi religiose. Quella Chiesa desiderava voler bene al mondo in toto, anche e soprattutto al mondo lacerato, contraddittorio, brutto e cattivo. Quella Chiesa desiderava voler bene alle altre fedi e religioni, anche se dalle altre fedi e religioni non arrivavano messaggi altrettanto concilianti e amichevoli. Papa Giovanni volle un Concilio pastorale, non teologico. Volle un Concilio per dire il Vangelo in modo nuovo, non per lanciare anatemi. Di qui il necessario senso di fiducia verso il mondo in tutti i suoi aspetti. Di qui quello che io chiamo, anche se l’espressione non suona bene, il desiderio di voler bene al mondo. Desiderio a volete sincero, a volte no, a volte declinato nella realtà con intelligenza, altre volte no. Ma il punto non è questo. Il punto è che un figlio del Concilio, come sicuramente Francesco è, probabilmente continua a desiderare di voler bene al mondo in toto. E continua nonostante il fatto che, nel frattempo, il mondo, anche dal punto di vista religioso, è riuscito molto bene nell’impresa di dare il peggio di sé.

 

Fa parte della temperie culturale e spirituale del Concilio non solo la fiducia nel mondo, ma un certo senso di colpa per i peccati dell’Occidente. In quella fase, in cui si usciva definitivamente dall’epoca coloniale e molti popoli e molte culture si affacciavano sulla scena rivendicando un ruolo autonomo e portatore di dignità, indipendentemente dal ruolo assegnato loro dall’Occidente, la Chiesa fece propria questa visione, fino al punto da incominciare a mettersi in discussione in quanto Chiesa nata in Oriente ma cresciuta in Occidente, con tutte le conseguenze del caso.

 

I figli del Concilio sono cresciuti così, interiorizzando sinceramente questa miscela di fiducia e senso di colpa più o meno consapevole. E anche Bergoglio è cresciuto così. Solo che oggi le sue parole, di figlio del Concilio, suonano terribilmente fuori sincrono rispetto a un mondo che non è più quello di mezzo secolo fa. Ascoltando Francesco, specie quando parla dell’accoglienza dei migranti o denuncia le colpe della globalizzazione o tace certe responsabilità a proposito di violenza di matrice religiosa, sembra proprio di assistere a un video con un montaggio sfasato: un testo appartenente a un’altra epoca è applicato sopra immagini di un’epoca, la nostra, tutta diversa, così profondamente diversa da aver bisogno di nuove chiavi di lettura.

 

Ripeto: non sto giustificando il papa. Sto solo cercando di capire. E quella che propongo potrebbe essere una risposta, o almeno un pezzo di risposta.

 

Di certo, credo che Francesco abbia bisogno di aiuto. Non solo attraverso la preghiera, che lui sempre chiede e noi gli assicuriamo, ma dico proprio aiuto culturale: quello che solo amici sinceri, e non yes men ossequiosi, possono garantirgli. Del resto, non è stato proprio Francesco a chiedere a noi cattolici di parlare con parresìa, cioè con franchezza e libertà di dire tutto?

 

 

Questo articolo è apparso anche sul blog dell'autore con il titolo "Perché il papa è forse fuori sincrono. E come aiutarlo"