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il dibattito

Caro Masneri (e p.c. caro Ferrara) le parole sono fatti, non desideri

Maurizio Crippa

I nomi “sunt consequentia rerum”. Così, dire "utero in affitto” non è un’espressione “orrida truculenta”, ma dice qualcosa pertinente alla cosa in sé. Una lettera 

In punta di piedi, spero con uguale garbo, scrivo al caro e appassionato Michele Masneri che ha scritto una lettera all’“amaro, amato adorato Fondatore”, che a sua volta aveva scritto sui noti temi. Giuliano Ferrara aveva scritto di “cattiva contemporaneità” e di “utero in affitto” e il caro Michele ha risposto che le parole sono importanti. Ed è ovvio, e qui vorrei intromettermi. Perché i nomi “sunt consequentia rerum”, per noi che ancora ci orientiamo nel mondo con le coordinate solide del realismo tomista. Le parole vanno usate evitando la patina, o il decoro, che fa sembrare diversi i fatti. Così che se Ferrara (no, non Ferrara: diciamo chiunque) dice “utero in affitto” non usa un’espressione “orrida truculenta”, come garbatamente s’indigna Masneri, ma dice qualcosa pertinente alla cosa in sé, res extensa. Invece è forse “gestazione per altri” l’espressione manualistica che prova a nascondere i fatti: che sono sempre bruti, anche quando li governi il sentimento. Ferrara propone una “sommessa e intelligente riflessione” su “amore e tecnica bioingegneristica”. Masneri incalza: per “le rare statistiche del settore l’80 per cento delle coppie che ricorrono al cosiddetto (…) sono belle famigliole etero, dunque qui da noi italiane e forse anche cristiane”. Che siano etero è vero, che siano cristiane è ininfluente. Ma non è che la statistica modifichi “la cosa in sé”.

Anche per la un tempo dibattuta “fecondazione assistita” suddivisa in omologa o eterologa – se ricordo, il tomo-ruinismo  ammetteva la prima –, a dominare restava quella parola che oggi preferisce evitare di dire il suo nome: desiderio. Il desiderio di una coppia persino religiosamente sposata di approdare a una procreazione che per mille motivi non è data: un trionfo del desiderio. Con l’amato adorato Fondatore se ne scrisse molte volte, un tempo, ma erano i tempi della “dittatura del desiderio”, di Semiramide che “libito fè licito in sua legge”. Poi vennero i tempi del “chi sono io per giudicare” e il Fondatore s’è fatto amaro. E che sia una battaglia di cultura e laicità persa, è chiaro. Ma non toglie che “la dittatura del desiderio” resti un tema su cui poterla pensare diversamente, ancora. Anche se il termine “diritti” ormai ha oscurato, pudibondo, il più “tirannico” (il rabbino Abraham Joshua Heschel) “desiderio”. 
Ancora è in levare, credo, dire che c’è “anche chi lo fa gratuitamente (…) signore che capiscono il ‘dramma della mancata filiazione’ etero o non etero”. E’ una filiazione del puro desiderio, e questo si può dire, senza mettere offesa nelle parole, anche quando aggressivi  e garruli sbandieratori accusano in piazza chi la pensi diversamente di “essere contro i bambini”. Ancora è una diminutio ingiusta dire che sì, vabbè, “per il restante” – che non che non è “restante”, è maggioranza – “esiste un commercio sì, del corpo”, e sminuire così una pratica che non pare orribile solo ai codini con un paragone sviante, “come se ne conoscono tanti anche qui, dal meretricio in giù o su”. E che c’entrano “tanti altri lavori usuranti al corpo e all’animo femminile”? Ancora le parole: davvero l’affitto di una gravidanza, chiamala se vuoi “condivisa”, in sharing può essere paragonato a un “lavoro usurante”? Con quale irridente cinismo si può dire una simile cosa? Una persona non particolarmente ferrata né informata ha detto, in piazza a Milano che “tutta la politica è fuori dalla realtà della società”. Si può invece pensare diversamente, chiamare le cose con altri nomi, e non avere per forza torto. Non c’è nessuna “attitudine a sbirciare in mutande e mutandine”, e non serve rispondere con “Rampelli e Mollicone”, si potrebbe ribattere con altri esempi all’infinito. Per chi ne avesse voglia, è solo una battaglia delle idee, quindi delle cose e dei nomi. Non siamo “un paese di fessi sempre in ritardo”, come scrivi su Twitter, caro Michele. C’è qualcuno, nel paese, che la pensa diversamente, con parole diverse. Tra vent’anni sarà tutto finito, hai ragione. Fino ad allora nessuno deve avere la lingua tagliata.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"