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Pioniere e paria della genetica

Il professore che difese i bambini down. Ora il Papa lo vuole santo

Giulio Meotti

Jérôme Lejeune ha scoperto la trisomia 21. La famiglia ci racconta lo scienziato che non vinse il Nobel solo perché ha voluto correggere lo spartito della vita senza condannare a morte i suoi pazienti

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Mio padre era un uomo semplice pieno di  umorismo. Lo prendevamo in giro per i pantaloni larghi e antiquati che amava portare per poter andare comodamente in bicicletta. E rispondeva: ‘Ma io sarò alla moda tra dieci anni, sono un pioniere’”. Così al Foglio parla Clara Lejeune. Durante l’intervista è arrivata la notizia che Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei santi a promulgare il decreto che riconosce “le virtù eroiche del Servo di Dio Jérôme Lejeune, fedele laico; nato il 13 giugno 1926 a Montrouge, in Francia, e morto a Parigi il 3 aprile 1994”. Un  passo verso gli altari, verso la santità, di uno dei genetisti più famosi del Novecento.

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Mio padre era un uomo semplice pieno di  umorismo. Lo prendevamo in giro per i pantaloni larghi e antiquati che amava portare per poter andare comodamente in bicicletta. E rispondeva: ‘Ma io sarò alla moda tra dieci anni, sono un pioniere’”. Così al Foglio parla Clara Lejeune. Durante l’intervista è arrivata la notizia che Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei santi a promulgare il decreto che riconosce “le virtù eroiche del Servo di Dio Jérôme Lejeune, fedele laico; nato il 13 giugno 1926 a Montrouge, in Francia, e morto a Parigi il 3 aprile 1994”. Un  passo verso gli altari, verso la santità, di uno dei genetisti più famosi del Novecento.

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Lejeune iniziò a occuparsi di genetica nel 1952, all’ospedale Saint-Louis di Parigi. La sua popolarità toccò l’apice quando fu invitato alla Casa Bianca, dieci anni dopo, per la consegna del premio per la ricerca sul ritardo mentale. Ma sembrava già fuori luogo e fuori tempo accanto a John Fitzgerald Kennedy. Quando il 22 agosto del 1997 Giovanni Paolo II si recò sulla sua tomba, Lejeune era leggenda.

 
A soli trentatré anni aveva scoperto la trisomia ventuno. Durante la conferenza stampa dopo la stretta di mano con Kennedy, Lejeune parlò dell’aborto come di “un’istituzione della salute che si sta trasformando in un’istituzione di morte”. Gioca con le parole institute of health e institute of death. La sera stessa scrisse alla moglie che si era giocato il Nobel. Mentre tutta la medicina aveva deciso che si dovesse eliminare la malattia assieme al malato, Lejeune decise di correggere lo spartito della vita che il cromosoma di troppo aveva rovinato, come un disco rigato.
Rimase sempre in piedi, nonostante il continuo colpo d’ala di slogan terribili come “Lejeune assassino” e “bisogna uccidere Lejeune e i suoi piccoli mostri”, scarabocchiati sui muri del suo ospedale. “I miei studenti mi chiedevano perché continuassi a lavorare sulla trisomia, dopo tutto i feti potevano essere eliminati. Io vedevo nella trisomia  il sintomo di una malattia. Loro il sintomo della morte”. All’epoca si credeva che fosse la sifilide la causa del mongolismo e che fosse colpa del comportamento licenzioso delle madri. La genetica moderna non esisteva ancora e, con un microscopio di fortuna del 1921, Lejeune scopre che tutti i mongoloidi avevano un cromosoma in più. Il ventunesimo, che non è a coppia, ma triplice. Avrebbe potuto chiamarla “sindrome di Lejeune”, ma preferirà “trisomia 21”. 

 
Assieme al genetista Raymond Turpin, Lejeune aveva intuito la relazione dei dermatoglifi (linee della mano) con le caratteristiche dei pazienti affetti dalla sindrome. Da assegnista presso il Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica passa a professore di genetica fondamentale, a esperto di radiazioni atomiche all’Onu e di genetica presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, poi all’Istituto Pasteur e all’Inserm. Membro di numerose accademie in tutto il mondo – fra cui l’Accademia dei Lincei – Lejeune diceva che se la natura, talvolta, condanna, compito della medicina non è mai quello di eseguire la sentenza, ma di cercare di commutare la pena. Vedeva  sempre l’uomo, non la somma delle sue caratteristiche genetiche. Man a mano che le proposte per utilizzare gli embrioni a scopo di ricerca aumentavano, Lejeune si chiese: “Perché quest’appetito di carne fresca? Perché la vita umana ha perso qualsiasi valore da quando nazioni, un tempo civili, hanno rinunciato a ciò su cui per duemila anni e più tutti i medici del mondo avevano giurato”. O come quando il Parlamento inglese, il 23 aprile del 1990, approvò una legge secondo cui, dirà Lejeune, “i giovanissimi inglesi di meno di quattordici giorni possono essere considerati materiale sperimentale, autorizzandone perfino la vivisezione”.

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La figlia, Clara Lejeune, che è stata per dieci anni presidente di General Electric France, conserva il ricordo di un uomo semplice. “Veniva a casa per pranzo e cena tutti i giorni” ci racconta. “La mamma preparava una bella cena. Ci ha insegnato molto, facevamo conversazioni affascinanti su scienza, storia, fede, matematica. Gli piaceva la conversazione in cui ognuno portava le proprie conoscenze e i propri pensieri sugli argomenti più diversi. Abbiamo visto molto nostro padre, nonostante i suoi tanti viaggi e il suo lavoro costante. La domenica pomeriggio lavorava nel suo piccolo ufficio accanto alla casa di campagna e ci portava a fare una passeggiata nei campi”. Ricorda il banco da lavoro, gli utensili, la riproduzione della Sindone, i testi delle sue conferenze… “Di notte, d’estate, ci insegnava a leggere le stelle e a capire le rotondità della terra stendendosi nell’erba e guardando la curva dell’orizzonte. Mio padre è una delle poche persone che ha avuto una visione complementare, armoniosa e fruttuosa tra scienza e fede. Diceva: ‘poca scienza ti allontana da Dio, molta scienza ti avvicina a Dio’”. Diceva anche: “Se, Dio non voglia, la chiesa arrivasse ad ammettere l’aborto, allora non sarei più cattolico”. Aveva un messaggio semplice, nonostante la sua erudizione. “Che ogni essere umano è unico, il loro corredo genetico esiste dalla prima cellula e tutta la vita è sacra e degna di essere vissuta” ci dice Clara. “Il ruolo del medico è quello del giuramento di Ippocrate. Curare i malati. È stato accusato di essere revisionista, antisemita, assassino, filo-sovietico, spia, è stato persino definito una ‘vipera libidinosa del Kgb’. A ogni incontro veniva aggredito, spesso fisicamente. Alcuni hanno persino voluto contestare la sua scoperta sulla sindrome di Down e attribuirla ad altri”. 

   
Adesso che rilegge con occhi di adulta gli avvenimenti che hanno costellato la sua vita, Clara si accorge che il padre ha dovuto soffrire molto per quella sua posizione sulla vita umana. “Ha conosciuto la rinuncia alle cose del mondo, alla gloria, alla celebrità, ai riconoscimenti scientifici. Ha conosciuto il tradimento di amici, la moderna condanna esercitata dalla stampa”. Un giorno Clara gli ha chiesto perché non si  difendesse da quelle accuse vergognose. “Ha risposto che ‘quello che la gente dice di me non ha importanza, quella che conta è la lotta che conduco’ e io ho ribattuto: ‘Ma se la tua immagine è rovinata ne risentono anche quelli che vuoi difendere’. E lui ha risposto: ‘Puoi avere ragione mia cara, ma non ho né il tempo né il talento per difendere la mia immagine’”. 

 
Papa Giovanni Paolo II lo ammirava molto ... “Viveva quotidianamente la sua fede, ma papà non era un bigotto. Ci ha insegnato la preghiera serale in famiglia, la fede era presente nella sua vita e nelle sue azioni, ma senza ostentazione. Mio padre non faceva proselitismo, non ci obbligava mai ad andare a messa, né a confessarci. Era un esempio, tutto qui. La sua fede era abitata dal buon senso, radicato nella realtà, e un certo scetticismo di fronte ai miracoli. Non gli piaceva lo spettacolare o il sensazionale. Amore semplice nella  densità e profondità quotidiana. Ha fatto la più grande scoperta del XX secolo quando ha capito che una malattia poteva avere una causa genetica. Questo è stato il primo passo nella genetica moderna. È stato invitato a parlare in America nel bel mezzo del dibattito sull’aborto. All’inizio del suo discorso è stato applaudito, il piccolo francese che aveva fatto la scoperta che aveva fatto compiere alla scienza un gigantesco balzo in avanti. Ma quando iniziò a parlare di rispetto per la vita, la gente tacque e alcuni lasciarono la stanza. Prima di andare a letto, come faceva ogni giorno, scrisse a nostra madre: ‘Stanotte ho perso il Nobel’”. 

 
Sapeva che le civiltà sono mortali. “Faceva spesso l’esempio di Sparta e Atene. Sparta città di guerrieri che soppresse gli invalidi e Atene la prima culla della democrazia e della cultura. ‘Atene irradia ancora, di Sparta non rimane nulla’, diceva. Una società che sopprime i deboli e il piccolissimo si uccide”. In Francia, leggiamo che il 95 per cento dei bambini con sindrome di Down “scompare” oggi prima della nascita. “Mio padre voleva guadagnare tempo, ma sapeva che la battaglia era persa” conclude al Foglio Clara Lejeune. “Ha sempre creduto che l’unico modo per salvarli fosse guarirli. A volte ha sofferto per aver sacrificato così tanto tempo alla ricerca a favore della battaglia politica. Io ho un temperamento ottimista. Prima di tutto, è inutile essere pessimisti. Il rispetto, la dignità della persona umana è stata una lotta in tutti i secoli. I credenti sono sempre stati in minoranza, perseguitati, eppure siamo ancora qui. L’unica cosa importante è restare nel profondo della fiamma dell’Amore divino che ci fa vivere e ci guida nel cammino, qualunque esso sia”.

  

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A continuare il lavoro del professor Lejeune oggi è il genero, Jean Marie Le Mené, che presiede la Fondazione Lejeune, ha sposato una delle figlie del genetista e ha scritto “Il professor Lejeune. Fondatore della genetica moderna” (in Italia edizioni Cantagalli). “Il professor Lejeune è stata l’unica personalità, dagli anni ‘70, ad anticipare e annunciare tutto ciò che stiamo vivendo oggi” racconta al Foglio Le Mené. “Questo è stato precisamente il motivo della sua lotta contro l’aborto. Era certo che uno stato che accetta che una madre sopprima il proprio figlio con la complicità della medicina, perché ha paura di essere visto come avversario della donna sostenendo la maternità, è capace di rinunciare a tutto. L’aborto ha un effetto a cricchetto. Non c’è ‘svolta sociale’ che, per convincere gli scettici, non abbia brandito l’aborto come talismano. Infatti, una volta legalizzato l’aborto, sembra molto meno grave accettare  la riproduzione assistita per tutti, la sostituzione degli animali da laboratorio con embrioni umani, l’eugenetica e le chimere, insomma tutte le follie transumaniste della mercificazione del vivere. Dopo l’inizio della vita, il dibattito è sulla fine della vita, con gli stessi argomenti. Se abbiamo potuto accettare l’aborto, dobbiamo poter accettare l’eutanasia, è la stessa cosa. Lejeune ha capito prima di chiunque altro che la legalizzazione dell’aborto è meno una questione di morale personale e più un’arma politica formidabilmente efficace. Infatti, oggi, dissuadere dall’aborto può portare al carcere, il ‘reato di ostruzione’. Con l’aborto, lo stato di diritto è invertito: criminale non è più uccidere, ma rifiutarsi di farlo”.

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Lejeune si batté contro l’eugenetica. “Dalla fine della Seconda guerra mondiale abbiamo distinto tra l’eugenetica genocida che tutti rifiutano e l’eugenetica medica che tutti accettano” ci dice Le Mené. “Tuttavia, lo screening medico della trisomia, generalizzato e sistematico, porta concretamente al genocidio prenatale, per oltre il 90 per cento, di una popolazione stigmatizzata sulla base del suo genoma imperfetto. La Fondazione Jérôme Lejeune, da più di venticinque anni, ritiene con il suo fondatore che ‘o riusciremo a guarirli dalla loro innocenza o ci sarà il massacro degli innocenti’. La fondazione ha quindi, da un lato, sviluppato il più grande consulto medico europeo per persone con sindrome di Down e, dall’altro, rilanciato la ricerca scientifica internazionale con l’obiettivo di sconfiggere questa anomalia cromosomica che causa la disabilità intellettiva. Questo notevole sforzo sta gradualmente aumentando la consapevolezza del destino ingiusto subìto dalle persone con sindrome di Down e contribuisce a cambiare la prospettiva su di loro. Oggi molti scienziati sono convinti che un giorno saremo in grado di superare la trisomia   e a restituire alle persone interessate i talenti che portano in sé ma che non possono esprimere a causa dei disturbi introdotti dal cromosoma. Penso che la fondazione abbia notevolmente contribuito a dimostrare che lo screening per la sindrome di Down è eugenetico (è affermato come tale anche dai suoi più audaci promotori) e che la grandezza di una civiltà si misura dalle cure che fornisce al più fragile dei suoi membri. Lejeune è il fedele seguace di una tradizione ippocratica dell’arte medica che cerca di alleviare il dolore senza danneggiare il paziente. Questa tradizione, che precede il cristianesimo di quattrocento anni, è stata brutalmente sfidata nel Ventesimo secolo dallo sviluppo di una tecnoscienza che può essere utile per la medicina, ma che non è medicina. Fu a seguito di alcune scoperte tecniche (ecografia, amniocentesi) slegate da ogni riflessione morale, che si ritenne più efficiente e redditizio sbarazzarsi di bambini anormali prima della nascita che curarli. Lejeune ha chiarito che la tecnica non è neutra, è guidata da una finalità di esecuzione e di esaustività che non è medicina. E’ il caso, per esempio, della procreazione medicalmente assistita che porta necessariamente alla selezione di embrioni conformi agli standard di produzione e al rifiuto di quelli imperfetti dedicati agli esperimenti di laboratorio. Per questo motivo, il professor Lejeune non era favorevole alla riproduzione assistita e non la considerava parte della medicina. E’ lui che ha restituito la sua nobiltà a una medicina in preda della vertigine del transumanesimo, questa ideologia che è il frutto del connubio innaturale tra scienza e mercato. Lejeune è ormai una figura riconosciuta in tutto il mondo per aver saputo non negare nell’oscurità della modernità ciò che aveva appreso alla luce di maestri immemorabili. Il suo lavoro inesorabilmente si fa strada nelle menti e nei cuori”.
Parliamo, infine, con la biografa del genetista, che è anche la postulatrice della causa di canonizzazione di Lejeune. Si chiama Aude Dugast e ha scritto la biografia del genetista, “Jérôme Lejeune: La liberté du savant”. “Lejeune era soprattutto un cristiano che prendeva sul serio il  battesimo, in ogni circostanza”, racconta al Foglio Dugast. “La sua fede, il cui carattere incrollabile tanto impressiona coloro che lo circondano, è quella trasmessagli dai suoi genitori a cui si limitava ad aderire, obbedientemente,  in uno sviluppo armonioso della sua intelligenza. La brillante intelligenza di Lejeune gioca un ruolo centrale nella sua fede. La sua vita di scienziato cattolico corteggiato a livello globale mostra che la fede e la scienza vanno di pari passo nella ricerca della verità e che l’uso corretto dell’intelligenza aumenta la fede. Jérôme aveva una fede che si nutriva dei sacramenti, come la messa domenicale che non perdeva mai. Da uomo pio ma razionale preferì la recita del rosario ai fenomeni straordinari che considerava con cautela e aveva una devozione filiale alla Beata Vergine che chiama ‘la meraviglia delle meraviglie’. Gli piace frequentare santi le cui vite edificanti lo ispiravano e confortavano”. 

  
Due lo hanno particolarmente segnato: “San Vincenzo de Paoli per la sua attenzione ai più poveri e san Tommaso Moro per la rettitudine della coscienza. La sua vita è guidata dalla chiamata del Vangelo, la parola di Gesù: ‘Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’”.

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Quando incontrò quei bambini, nel 1952, erano chiamati “mongoli”. “Lejeune fu sopraffatto da questi pazienti e decise di dedicare loro la vita. Mette subito il cuore e la mente nella ricerca di una cura. Diceva: ‘La compassione per i genitori è un sentimento che ogni medico dovrebbe provare. L’uomo che potrebbe dire ai genitori che il loro bambino è gravemente malato e che non si sentisse ribaltare il cuore per il dolore che li travolgerà, quest’uomo non è degno della nostra professione’. Dopo aver scoperto le cause della sindrome di Down scrisse nel suo diario: ‘Se Dio volesse che finalmente facessimo qualcosa per questi bambini che osservo, impotente, da quasi dieci anni ormai, che gioia profonda sarebbe’. Questa importante scoperta lo avrebbe reso il ‘padre della genetica moderna’. Ha ricevuto innumerevoli premi ed è stato nominato membro di numerose accademie e istituzioni internazionali. Ma soprattutto questa scoperta ha suscitato in lui un senso di urgenza che non lo lascerà fino alla morte: curare i suoi pazienti, che, privi di intelligenza, erano ‘poveri tra i poveri’. E’ come un amante e un poeta che Lejeune contempla la creazione e lungi dall’opporre i dati della scienza a quelli della rivelazione, nutre la sua intelligenza e il suo cuore attraverso un dialogo fecondo tra i due e ama mostrare che sono complementari. Vede in ciascuno dei suoi pazienti il volto di Cristo sofferente. E’ quindi naturale, quando i suoi pazienti saranno minacciati dalle leggi eugenetiche, con un senso di paura di una ‘nuova strage degli Innocenti’, che si farà sentire in loro difesa. Conoscerà molte e violente opposizioni, da parte di correnti eugenetiche, e di certe femministe, quelle che rivendicano l’aborto come una liberazione delle donne senza pensare che l’aborto distrugge il bambino e schiaccia la maternità, e di gruppi di pressione politica che vogliono promuovere l’agenda della cultura della morte. Ma Jérôme, che seguiva la propria coscienza, non si allontanò dal suo percorso: combatté non per le idee, ma per gli uomini, che hanno un volto, un nome, una storia e che sono ‘i nostri fratelli umani’. Questa fraternità biologica ci obbliga a rispettare ciascuno dei nostri fratelli. Nonostante i rischi per la sua carriera, gira il mondo, per testimoniare instancabilmente davanti alle corti e ai parlamenti, alle assemblee degli studiosi e dei media, della bellezza di ogni persona, indipendentemente dall’età o dalla salute, e dalla dignità inviolabile della vita umana. Diceva: ‘Il razzismo cromosomico è orribile, come tutte le forme di razzismo’”.

 
Ora in Vaticano studiano le virtù teologiche e cardinali per capire se Lejeune le ha vissute a livello eroico. “Come medico, Lejeune ha esercitato la virtù della carità in modo eccezionale. Ha mostrato amore incondizionato per coloro che chiamava i suoi ‘piccoli pazienti’. E’ molto commovente sentire i genitori testimoniare del loro incontro con Lejeune. Dicono tutti che c’è stato un prima e un dopo il loro incontro. Tutti parlano dei suoi occhi straordinari e del suo modo delicato di accogliere il bambino. Che la sua scoperta sulla sindrome di Down venisse utilizzata per selezionare i bambini affetti invece di curarli è stato per lui un vero crepacuore. Capì che doveva trovare molto rapidamente la cura che avrebbe salvato questi bambini dalle pratiche eugenetiche. Come ricercatore aveva una fede molto naturale, intrisa di scienza: vedeva Dio ovunque, nella sua ricerca, nella sua vita, ricerca della verità. Questo è un aspetto della sua santità che ispira molti scienziati”.

 
L’amicizia di Giovanni Paolo II lo ha segnato. “Lejeune non ha detto di essere amico di Giovanni Paolo II, ma il Santo Padre sì. Erano assieme il giorno prima dell’attentato al Papa e hanno pranzato. E’ stato uno choc terribile per Lejeune quando, al ritorno a Parigi, ha saputo che il Santo Padre versava tra la vita e la morte. Questa amicizia e la vicinanza umana e spirituale tra i due è stata un grande supporto per Lejeune nella sua lotta quotidiana per difendere la bellezza della vita. Entrambi erano amanti della vita, ammiravano la bellezza ed entrambi avevano un grande senso dell’umorismo e lo stesso gusto per il teatro”. 

 
Nel 1993, Giovanni Paolo II ha affidato a Lejeune la creazione della Pontificia Accademia per la Vita. “Lejeune scrisse i suoi statuti, il giuramento dei Servitori della Vita e nominò i membri. Ha presieduto l’Accademia  per alcuni mesi, fino alla sua morte il 3 aprile 1994. Quello stesso giorno, un’amica ha chiamato la signora Lejeune e le ha detto: ‘Questa mattina, quando ho visto la faccia triste del Papa durante la benedizione pasquale in tv, ho capito che Jerome era andato in paradiso’. Tre anni dopo, durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Parigi nel 1997, il Santo Padre andò a meditare sulla tomba di ‘fratello Jérôme’”.

 
Fra gli ultimi suoi scritti, il professore lasciò un rimpianto: “Ero colui che doveva guarirli e me ne vado prima di aver trovato”. Ma il giorno del funerale, nel coro della chiesa di Notre-Dame, si fa avanti Bruno Beaufrère, affetto da trisomia. E’ sul suo cariotipo che Lejeune aveva fatto la prima scoperta, quarant’anni prima. Durante la preghiera dei fedeli, nello stupore generale, Bruno prende il microfono. “Grazie, professore mio, per ciò che hai fatto per me, per mia madre e mio padre. Per merito tuo sono fiero di me stesso”. 

 
Non è riuscito a salvare i suoi bambini dalla nuova Sparta. Ma se non li vediamo quasi più in giro, ora che stanno scomparendo, è perché sappiamo che c’erano. Perché Lejeune ce li ha fatti vedere.

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