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“Quando non si può più donare la vita, non resta che conservarla a ogni costo”. Parla il filosofo francese Olivier Rey

“Se la vita si riduce alle funzioni biologiche, ogni morte è solo un fallimento sanitario”

Giulio Meotti

L'intervista all'autore di "L'idolatria della vita" sulla rimozione della morte in Occidente. "Ormai nessuno muore più di vecchiaia"

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Fino a una data molto recente della storia umana, un’epidemia, simile a quella che si è diffusa sulla superficie della terra nel 2020, avrebbe toccato l’umanità come una piccola onda che increspa la superficie dell’oceano. Ma ecco che la piccola onda ha assunto le proporzioni di uno tsunami planetario. Come spiegare un simile cambiamento di scala?”. E’ la domanda che il filosofo e matematico francese Olivier Rey si è posto nel libro uscito per la nuova serie Tracts di Gallimard, “L’idolatria della ‘vita’” (in Italia per la Società editrice fiorentina). Appena nel 1968, l’influenza di Hong Kong fece due milioni di morti (dai ventimila in Italia ai centomila in America). Ma nessun lockdown, quarantena o blocco dell’economia. “Dall’inizio della crisi sanitaria e dal periodo incerto e minaccioso in cui stiamo vivendo, la domanda più intrigante è il confronto con i 30 mila decessi avvenuti in Francia, colpiti dall’influenza di Hong Kong, che affollò gli ospedali di persone con difficoltà respiratorie ma che sono passati completamente inosservati”, ha scritto sul Figaro un’altra filosofa, Chantal Delsol. Rey non è un riduzionista del Covid o un libertario dell’immunità di gregge. Ragiona attorno alle lezioni culturali più importanti che ha tratto da questa crisi. 
“La prima è che la quantità di mezzi di cui disponiamo, senza paragone con quelli di cui disponevano i nostri avi, ha paradossalmente accresciuto la nostra vulnerabilità collettiva”, dice al Foglio Rey, già matematico   al Centro nazionale per la ricerca scientifica e all’Ecole polytechnique, oggi docente di Filosofia all’Università Panthéon-Sorbonne,  autore di “Une folle solitude. Le fantasme de l’homme auto-construit” (Seuil), “Quand le monde s’est fait nombre” (Stock) e in italiano “Dismisura” (Controcorrente Edizioni) e “Itinerari dello smarrimento” (Ares Edizioni),  testi dove Rey critica l’immaginario che sottende la modernità nella tradizione francese che fu di Jacques Ellul. “In passato, un’epidemia come quella che noi subiamo dall’inizio del 2020 certamente avrebbe mietuto vittime, ma non avrebbe affatto colpito la vita delle società. che invece oggi è  sconvolta. Perché? Perché i mezzi potentissimi di cui disponiamo per rimandare la morte rendono intollerabile l’idea di vedere morire anche solo una piccola parte della popolazione, senza fare nulla. E’ consuetudine dire dei sistemi ospedalieri che hanno l’obbligo non dei risultati (si sa che chiunque un giorno deve morire), ma di avere i mezzi. Detto in altri termini, i nostri mezzi ci obbligano. In fondo, ciò che ha reso imperative le misure di confinamento è stata, in primo luogo, la preoccupazione di evitare la congestione dei servizi ospedalieri: è in funzione dei servizi di rianimazione che la vita  si è paralizzata. Su una tale situazione non esprimo un giudizio morale, ma sottolineo un fatto. I nostri mezzi, giganteschi in confronto a quelli di cui si è potuto disporre in passato, ci permettono di lottare efficacemente contro ogni sorta di male che lasciavano i nostri predecessori senza soccorso”. 

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Fino a una data molto recente della storia umana, un’epidemia, simile a quella che si è diffusa sulla superficie della terra nel 2020, avrebbe toccato l’umanità come una piccola onda che increspa la superficie dell’oceano. Ma ecco che la piccola onda ha assunto le proporzioni di uno tsunami planetario. Come spiegare un simile cambiamento di scala?”. E’ la domanda che il filosofo e matematico francese Olivier Rey si è posto nel libro uscito per la nuova serie Tracts di Gallimard, “L’idolatria della ‘vita’” (in Italia per la Società editrice fiorentina). Appena nel 1968, l’influenza di Hong Kong fece due milioni di morti (dai ventimila in Italia ai centomila in America). Ma nessun lockdown, quarantena o blocco dell’economia. “Dall’inizio della crisi sanitaria e dal periodo incerto e minaccioso in cui stiamo vivendo, la domanda più intrigante è il confronto con i 30 mila decessi avvenuti in Francia, colpiti dall’influenza di Hong Kong, che affollò gli ospedali di persone con difficoltà respiratorie ma che sono passati completamente inosservati”, ha scritto sul Figaro un’altra filosofa, Chantal Delsol. Rey non è un riduzionista del Covid o un libertario dell’immunità di gregge. Ragiona attorno alle lezioni culturali più importanti che ha tratto da questa crisi. 
“La prima è che la quantità di mezzi di cui disponiamo, senza paragone con quelli di cui disponevano i nostri avi, ha paradossalmente accresciuto la nostra vulnerabilità collettiva”, dice al Foglio Rey, già matematico   al Centro nazionale per la ricerca scientifica e all’Ecole polytechnique, oggi docente di Filosofia all’Università Panthéon-Sorbonne,  autore di “Une folle solitude. Le fantasme de l’homme auto-construit” (Seuil), “Quand le monde s’est fait nombre” (Stock) e in italiano “Dismisura” (Controcorrente Edizioni) e “Itinerari dello smarrimento” (Ares Edizioni),  testi dove Rey critica l’immaginario che sottende la modernità nella tradizione francese che fu di Jacques Ellul. “In passato, un’epidemia come quella che noi subiamo dall’inizio del 2020 certamente avrebbe mietuto vittime, ma non avrebbe affatto colpito la vita delle società. che invece oggi è  sconvolta. Perché? Perché i mezzi potentissimi di cui disponiamo per rimandare la morte rendono intollerabile l’idea di vedere morire anche solo una piccola parte della popolazione, senza fare nulla. E’ consuetudine dire dei sistemi ospedalieri che hanno l’obbligo non dei risultati (si sa che chiunque un giorno deve morire), ma di avere i mezzi. Detto in altri termini, i nostri mezzi ci obbligano. In fondo, ciò che ha reso imperative le misure di confinamento è stata, in primo luogo, la preoccupazione di evitare la congestione dei servizi ospedalieri: è in funzione dei servizi di rianimazione che la vita  si è paralizzata. Su una tale situazione non esprimo un giudizio morale, ma sottolineo un fatto. I nostri mezzi, giganteschi in confronto a quelli di cui si è potuto disporre in passato, ci permettono di lottare efficacemente contro ogni sorta di male che lasciavano i nostri predecessori senza soccorso”. 

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La medaglia ha un rovescio. “Strada facendo, abbiamo disimparato a fare fronte alle calamità che ci paralizzano quando prendono di sorpresa i mezzi con i quali ordinariamente sappiamo respingerle”. La morte è ora percepita come un fallimento del sistema sanitario. “I mezzi potentissimi che abbiamo per prevenire e curare ogni sorta di malattia non hanno fatto che aumentare la speranza di vita. Hanno anche la tendenza a farci vivere come se la morte potesse essere ritardata indefinitamente. Così, quando la morte malgrado tutto si presenta, appare più che mai spaventosa. Nel corso del XIX secolo fu promulgata una legge secondo la quale un decesso doveva essere constatato da un medico che, sul certificato che compilava, doveva indicare la causa della morte. Tra quelle elencate figurava la vecchiaia per le persone che avevano superato una certa età. Nel corso del XX secolo la speranza di vita è aumentata sensibilmente, ma la morte per vecchiaia è scomparsa dalle nomenclature mediche. In altre parole, nel momento in cui uomini e donne non hanno mai vissuto così a lungo, nessuno più muore di vecchiaia. La morte deve sempre avere una causa precisa, il non funzionamento dell’uno o dell’altro organo – il che lascia intendere che essa non è una manifestazione del nostro carattere mortale, bensì la conseguenza di una disfunzione specifica, che si sarebbe potuta prevenire o che in futuro si saprà trattare. Ciò fa sì che la morte appaia sempre meno come il termine necessario della vita terrestre  e sempre più come un fallimento del ‘sistema sanitario’, che non ha saputo fare quel che occorreva per prolungare la vita”. 

 

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Scrive nel libro: “La nostra civiltà assomiglia a quei polli che, nonostante la testa tagliata, continuano per alcuni istanti a correre”. “Faccio un esempio preciso”, continua Rey al Foglio. “In Francia, il presidente della Repubblica ha dichiarato a marzo, nel momento in cui l’epidemia si diffondeva nel paese e il confinamento  della popolazione era imminente, che il governo stava per mobilitare ‘tutti i mezzi finanziari necessari per dare assistenza, per prendere in carico i malati, per salvare  vite a qualunque costo’. Una domanda, tuttavia, si pone: nella vita così come oggi viene espressamente concepita, chi giustifica il fatto che bisogna salvare a ogni costo? Osservo che in Europa, tra il XVI e il XVIII secolo, i dizionari definivano la vita come ‘l’unione dell’anima col corpo’ (è così, in particolare, nelle prime quattro edizioni del “Vocabolario della Crusca”, ndr). A partire dal XIX secolo, le definizioni cambiano radicalmente: la vita diviene lo ‘stato degli esseri animati, finché in essi dura il principio delle sensazioni e del moto’ (“Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana” di Niccolò Tommaseo, ndr), un ‘complesso delle proprietà, quali la nutrizione, la respirazione, lo sviluppo e la riproduzione, che caratterizzano la materia vivente e la distinguono dalla materia non vivente’ (“Vocabolario della lingua italiana” di Nicola Zingarelli, ndr), la ‘condizione propria degli organismi animali e vegetali, dotati delle funzioni attinenti alla loro conservazione, sviluppo e riproduzione, e capaci di stabilire relazioni con l’ambiente e con gli altri organismi’ (“Dizionario della lingua italiana” di Aldo Gabrielli, ndr), eccetera. Detto in altre parole, da due secoli, la vita viene presentata in termini puramente oggettivi e funzionali. Ma in questo caso, perché è così importante vigilare su di essa? Se la vita non è nient’altro che il ‘complesso delle proprietà quali la nutrizione, la respirazione, lo sviluppo e la riproduzione’, per quale ragione converrebbe salvarla a ogni costo? Non si sa. In realtà, e per fortuna, la vita non si riduce a quello che i dizionari moderni pretendono che sia. Siamo gli eredi di una tradizione in cui le parole continuano a essere zavorrate dal senso che gli è stato dato in passato. In particolare, in Europa siamo gli eredi di una cristianità in seno alla quale continuano a risuonare la parole del Signore che dice a Mosè: ‘Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita’ (Dt 30, 19), e di Gesù che dice ai suoi discepoli: ‘Io sono la vita’ (Gv 14, 6). Pronunciando queste parole, Cristo non voleva dire ‘io sono un complesso delle proprietà, quali la nutrizione, la respirazione, lo sviluppo e la riproduzione’”. 

 

La nostra situazione  è profondamente contraddittoria. “Da un lato, è in virtù del carattere sacro della vita di cui parla Cristo che si ritiene che questa debba essere salvata a ogni costo. Ma dall’altro, si pretende che la vita non sia nient’altro che ‘un complesso delle proprietà’. Cosa è successo? Il sacro non è scomparso, è stato trasferito dalla vita di cui parlava Cristo a quello che Walter Benjamin ha chiamato, in tedesco, ‘das bloße Leben’, il semplice fatto di essere in vita. E’ questo transfert che mi ha indotto a parlare di idolatria della vita: la vita che oggi viene sacralizzata non è quella che merita di esserlo. Da qui  l’immagine che mi è sorta spontanea, per caratterizzare la nostra situazione: quella dei polli che possono continuare per un momento a correre, quando si è tagliata loro la testa”. 

 

Entra in crisi la marcia del progresso. “Gli ultimi secoli  sembrano confortare le pretese dei progressisti, che puntano tutto sul futuro e considerano il passato come un peso morto. Sono i progressisti a imporre i loro punti di vista, a ridurre gli avversari al ruolo di difensori che, alla fine, finiscono sempre perdenti. Tuttavia, vanno misurate anche le fragilità delle vittorie conseguite dai progressisti, poiché acquisite al prezzo di un formidabile spreco del capitale accumulato. Questo è vero per quanto riguarda le risorse naturali: l’esuberanza industriale è stata ottenuta al prezzo del saccheggio della natura, che è ormai in uno stato di vulnerabilità critica. Di conseguenza, la spettacolare dinamica di arricchimento materiale appare sempre meno ‘sostenibile’, per utilizzare una parola di moda. Questo è ugualmente vero per quanto riguarda le risorse culturali. All’inizio del XX secolo, Charles Péguy insisteva già sul carattere parassitario, in confronto al passato, del mondo moderno che ‘trae la sua forza, o la sua apparenza di forza, solo dai regimi che combatte, dai mondi che ha iniziato a disintegrare’, e che ‘vive quasi interamente sulle umanità passate, che disprezza, e finge di ignorare, delle quali ignora molto realmente le realtà essenziali’. Disintegrando i mondi che gli permettono di prosperare, il progressismo lavora al proprio fallimento”. 

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Mentre si vogliono “salvare vite umane”, la “bioetica” è  svuotata di ogni dignità umana. “La Francia ha appena approvato una legge sulla bioetica che ne risulta privata di ogni etica autentica. Siamo chiari: la ‘bioetica’ in quanto tale è una truffa. Essa è stata inventata non per vigilare sui limiti, ma per allontanarli sempre di più: la missione della ‘bioetica’ è di approvare quel che l’etica tradizionale disapprova. Deve solamente vigilare per regolare un po’ la velocità dell’evoluzione, per persuadere l’opinione pubblica che tutto avviene dopo profonda riflessione e che tutto è ‘rigorosamente inquadrato’. Così, in Francia, il Comitato di bioetica nel 2005 considerava che fosse fuori discussione che l’assistenza medica alla procreazione venisse deviata dalle condizioni mediche di infertilità di una coppia formata da un uomo e una donna in età fertile. Nel 2017, ha giudicato perfettamente legittimo che l’inseminazione con i gameti di un donatore anonimo sia permessa a ogni donna che ne fa domanda. Da un giudizio all’altro, il comitato non rinnega se stesso: è fedele al suo ruolo, che è quello di fare saltare a uno a uno tutti i divieti. Nella nuova legge, le madri surrogate non sono riconosciute  (l’opinione pubblica non è ancora ‘pronta’ a questo passo): sarà per la prossima volta. Altro esempio: la depenalizzazione dell’aborto in Francia, che risale al 1975, doveva rispondere a quella che veniva definita ‘angoscia’ della donna incinta. Allora, il limite per farvi ricorso era di dieci settimane di gravidanza. In seguito, il termine è stato allungato a dodici settimane – ben presto quattordici, almeno secondo quanto previsto da un nuovo progetto di legge, che intende anche sopprimere per il personale medico la clausola di coscienza specifica all’interruzione volontaria di gravidanza. Per quanto riguarda il riferimento all’angoscia, cancellato nel 2014, ritorna nel 2020 – ma questa volta, l’angoscia ‘psico-sociale’ deve permettere un aborto fino al nono mese. Ecco a cosa serve la ‘bioetica’”. 

  

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Ma un mondo senza etica non è possibile. “Ethikos, in greco, definisce da una parte ciò che concerne i costumi e le abitudini, dall’altra ciò che concerne i princìpi di condotta. Si vede che ogni gruppo umano, per il solo fatto di esistere, ha necessariamente un’etica (indipendentemente dal fatto che i suoi costumi siano rigidi o dissoluti, la sua morale austera o permissiva). Quello a cui assistiamo dunque non è la scomparsa dell’etica, ma la sua metamorfosi. Faccio un esempio. Per lungo tempo le persone si riconoscevano come uomo o donna in funzione del sesso  alla nascita. Nel 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato ‘un diritto all’autodeterminazione, e la libertà di definire la propria appartenenza sessuale è uno degli elementi più essenziali’. La dissoluzione dell’antica regola, però, va di pari passo con l’apparizione della nuova: tra cui, l’obbligo imposto a chiunque di considerare una persona conformemente a quel che questa persona dichiara di essere. J. K. Rowling, l’autrice di ‘Harry Potter’, è rimasta scioccata per il fatto che le persone possano perdere il loro lavoro perché affermano che il sesso biologico è una realtà. Subito si è scatenata una campagna medistica contro di lei, che ne denunciava la  ‘trans-fobia’. Si vede  che se i divieti tradizionali scompaiono, altri divieti compaiono, che possono giungere perfino a vietare a qualcuno di dire ciò che ritiene vero. Peraltro, che ci sia sempre un’etica non vuol dire che tutte le etiche abbiano valore. Non credo che i mondi la cui etica si fonda su un rifiuto congiunto della trascendenza e del reale siano perenni”. 

 

Rey è inquieto. “Come non esserlo? Tra i numerosi pericoli che ci minacciano, ne citerei  due, che la ‘crisi sanitaria’ ha messo in luce in modo particolare.  La ‘de-civilizzazione’ che produce la ‘de-materializzazione’ delle relazioni umane, a causa di un uso senza limiti delle ‘tecnologie digitali’. Se i governanti  sono stati presi alla sprovvista dall’epidemia, numerosi  contano ora di approfittare della ‘finestra di opportunità’  aperta dalla crisi per accelerare  la digitalizzazione universale iscritta nella loro ‘agenda’. Così il governatore progressista  di New York, Andrew Cuomo, con il contributo di Bill Gates, ha dichiarato che la pandemia era l’occasione di ‘re-immaginare l’educazione’ liquidando il ‘vecchio modello’ degli allievi riuniti in  classe con un professore. La digitalizzazione integrale del mondo promette una disumanizzazione anch’essa integrale. Un’altra minaccia riguarda la rimozione organizzata nelle nostre coscienze del carattere mortale e la debolezza che questa rimozione genera. Nell’“Iliade”, Sarpedonte confida a un compagno, prima della battaglia: ‘Caro mio, se scampati che fossimo a questa guerra dovessimo vivere sempre, senza vecchiaia e senza morte, io stesso non sarei tra i primi a combattere né te spingerei, tanto meno, alla battaglia gloriosa; ma siccome in realtà ci sovrastano casi di morte innumerevoli, che un uomo non può evitare o fuggire, andiamo all’assalto, daremo a qualcuno o qualcuno a noi darà gloria!’. Questo passaggio mostra che il sapere, ancorato al corpo della nostra finitudine terrestre, ci rende coraggiosi: è perché sappiamo che in ogni caso si muore (san Francesco parlava di ‘nostra sorella morte corporale’), che si diventa capaci, quando le circostanze lo esigono, di dare la propria vita. E viceversa, l’idea che con le giuste misure la morte potrebbe essere differita indefinitamente renderebbe infinitamente codardi”. 

 

E’ il paradosso di un paese europeo dietro l’altro che, nel pieno della pandemia e avviandosi alla “guerra” per “salvare vite umane”, iniziavano l’iter sull’eutanasia (Spagna) e la estendevano ai bambini (Olanda),  liberalizzavano completamente la pillola abortiva (Italia) e dilatavano l’aborto di altre due settimane (Francia). Deve esserci qualcosa di malato nella vita che idolatriamo.  

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