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Difendere la libertà della donna contro la violenza dell'aborto maschio

Giuliano Ferrara

Mentre si manifesta bisognerebbe anche ricordare che un figlio ha diritto di nascere e che una donna ha sempre diritto di farlo nascere

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Nella campagna contro l’aborto di undici anni fa si disse, dissi, che “l’aborto è maschio”, e la cosa fu presa come una bizzarria o addirittura un marchingegno retorico, la ricerca al massimo di una attenuante generica per un’accusa di antifemminismo o di misoginia. Ora è avvenuto qualcosa. La circostanza è passata come si dice inosservata. Osservare non è più il forte di una civiltà del vedere e del chiacchierare. Nel giorno delle manifestazioni contro la violenza sulle donne, sabato scorso, si è appreso traumaticamente che un assassino ha ucciso la sua compagna perché lei non voleva abortire. Non è la prima volta che accade una faccenda di questo genere particolarmente ripugnante: il duplice omicidio di una donna e della vita accolta nel suo corpo, allo scopo direi brutalmente maschile di eliminare il “rischio” di una doppia e a quel punto doppiamente scomoda esistenza in vita. 

 

La coincidenza temporale però ha ridetto con atroce clamore che l’aborto è maschio, e proprio nel giorno dedicato alla violenza maschile sul corpo delle donne. Un accostamento più ancora inopportuno che inosservato e forse inosservato, stavolta, perché inopportuno. L’idea prevalente, sempre meno criticabile ora che “l’interruzione volontaria della gravidanza”, eufemismo gravido di significati ipocriti, è considerata l’esercizio di un diritto di liberazione dalla violenza patriarcale e possessiva, in una parola dalla schiavitù procreativa alla quale si sostituisce una pianificazione procreativa (planned parenthood), è che la donna incinta sia la prima a soffrire di un aborto, e anche per questo deve essere “lasciata in pace”, altra espressione eufemisticamente dubbia, ovvero lasciata sola, prima di tutto dalla società e dal maschio, soggetti estranei alla sua privacy (sentenza Roe vs Wade, 1973, Corte suprema degli Stati Uniti).

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Che aborto e sofferenza femminile siano intrecciati tragicamente è evidente, e un punto debole della linea pro life è sempre stato quello di spezzare l’unità nel binomio della difesa delle due vite in gioco. Ma che qualcuno, magari proprio la società moralmente sorda e il maschio virtualmente interessato allo sviluppo degli eventi, sia capace di infliggere questa sofferenza, per poi ritrarsi non in legislazioni a tutela, sensate e non punitive, quanto in misure ispirate al più freddo laissez faire, questo è la circostanza citata a renderlo patente: mentre manifestiamo per estirpare la violenza sulle donne, questa violenza viene esercitata come un aborto di doppio grado, che distrugge una volontà, quella di partorire, e due vite, quella della madre e del bambino programmato e formato nel suo seno. 

 

Il rischio temuto dal maschio violento, che ricorre alla misura estrema e barbarica per evitarlo, non è moralmente così diverso dal “rischio” paventato da un celebre presidente perfettamente progressista (e mai abbastanza rimpianto malgrado il presunto antiabortismo malaticcio del successore); parlo di Barack Obama, quando scongiurava l’eventualità che una delle sue due figlie restasse incinta dopo aver fatto l’amore. La parola è la stessa, nonostante l’abissale differenza delle intenzioni e dei comportamenti. E lo stesso è il grado di violenza antifemminile di quella parola, per quanto possa essere interiorizzata nella sottocultura del diritto all’aborto. Un figlio ha il diritto di nascere e una donna ha sempre il diritto di farlo nascere, sono due libertà dalla violenza che seguono esattamente lo stesso percorso, ma rendersene conto vuol dire saper osservare le circostanze e le verità illustrate dal nostro raccapricciante racconto quotidiano. 

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