17 aprile 1979: traduttore tascabile della società Franco-American Friends. Con un repertorio di 7.000 parole per ogni lingua, costava 1.400 franchi. (Keystone/Getty Images)

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Antonio Gurrado

Traduzioni, polemiche pol. corr. e appropriazioni culturali

È giusto che Marieke Lucas Rijneveld sia stata indotta a rinunciare a tradurre i versi di Amanda Gorman. La Gorman la conosciamo tutti: è la poetessa invitata all’insediamento di Joe Biden. La Rijneveld la conosciamo abbastanza: è la detentrice dell’International Booker Prize, mica la prima venuta. Tuttavia la Gorman è nera e la Rijneveld è bianca: e come può una bianca tradurre i versi di una nera? Senza contare che la Rijneveld ha ben ventinove anni e la Gorman solo ventidue: come può una trentenne tradurre i versi di una ventenne? Per fortuna, quanto meno, sono entrambe donne, così da evitare un caso increscioso che pure ha molti precedenti: come può Guido Calza, che è maschio, tradurre Margaret Atwood, che è femmina? E come può Yasmina Mélaouah, viceversa, tradurre Daniel Pennac? Per non contare casi limite come quelli di Enrico Terrinoni che ha tradotto Joyce o di Paolo Nori che ha tradotto Gogol’: come può un uomo vivo tradurre un uomo morto? Grazie al cielo non si verifica mai il caso inverso. Invece è molto frequente una clamorosa appropriazione culturale a danno di autori di una nazionalità, che vengono sistematicamente sottoposti a traduttori di nazionalità diversa. Come può un americano venire tradotto da un italiano, un francese da un turco, un tedesco da uno svedese? In generale, come può una persona venire tradotta da un’altra? In un mondo ideale, che rispettasse i diritti e le identità di tutti, ciascun autore dovrebbe tradursi da solo. Se non sa le lingue, peggio per lui.

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