Se le suore di clausura hanno bisogno dei social network la colpa è nostra

Antonio Gurrado

Facile fare gli ironici sulle indicazioni del Vaticano. Ma è l'unico modo per irrompere con la loro testimonianza nel nuovo mondo virtuale in cui ci siamo rifugiati

Be’, facile fare gli ironici sulle indicazioni del Vaticano che consentono alle suore di clausura l’utilizzo dei social network, purché sobrio e discreto. Scherzarci su e ridacchiare pensando alle suore che instagrammano selfie e shazammano canti gregoriani significa ridurre la clausura a rifiuto del mondo privandola di ogni valore di testimonianza. Per la testimonianza ci vuole pur qualcuno che osservi all’interno di un luogo condiviso. Prima i monasteri facevano irruzione in modo radicale nelle nostre città e nelle nostre piazze, spezzando con la scelta estrema della clausura il velo di comunità orientate all’apparenza, al guadagno, alla fretta. Ora che le nostre vite orbitano nei cloud, ora che la nostra anima è imprigionata nello smartphone, ora che non ci troviamo mai nemmeno per sbaglio di fronte alla grata di un monastero e alla sua pace, chi ci testimonierà l’essere autentico, il disinteresse e l’eternità? Sempre le suore, ovvio, che con la scelta incomprensibile della clausura dovranno irrompere nel nuovo mondo virtuale in cui ci siamo rifugiati e squarciarlo con la testimonianza. Se poi ci sembra che i social network siano ambienti troppo frivoli per una monaca di clausura, ricordiamoci che siamo noi ad averli resi così, utilizzandoli in modo né discreto né sobrio; e pensiamo a quei tali che, quando videro Gesù a tavola coi peccatori, dedussero che fosse un mangione e un ubriacone.

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