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Siamo noi telespettatori a giudicare Rudy Guede

Manuel Peruzzo
La revisione mediatica del processo e i dubbi etici e morali della spettacolarizzazione di una storia tragica. La realtà è che l'illusione di sapere come sono andate le cose ci salva dal totale sconforto
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La domanda che rivolgono più spesso a Franca Leosini in questi giorni di promozione di Storie Maledette (giovedì alle 21.05 su Raitre) è come mai in tanti decidano di confidarsi proprio a lei. “Esiste qualcosa che si chiama credibilità”, risponde, “al di là della mia persona: la testata, la rete”. E ancora: “Raitre non è una rete, è uno stato d’animo”. Una versione leosiniana di it’s not tv. It’s HBO.
 
 
Due le ossessioni immancabili nello stile leosiniano: il sesso e il linguaggio barocco. Spesso la formula vincente consente alla Leosini di trasformarsi in generatore automatico di memi, cioè gif virali che decontestualizzano frasi o parole in cui il linguaggio tecnico o letterario, nel racconto rigoroso dei fatti, cede il posto a quello più triviale e popolare (“acchiappava?”, e quel “dito birichino” con cui sintetizza le cellule epiteliali trovate nella vagina di Meredith Kercher dalle analisi). Questi momenti punteggiano il racconto della vicenda di una persona qualsiasi che, per qualche motivo, si è trasformata in carnefice. Franca Leosini è interessata proprio a quel momento di passaggio da normale cittadino a omicida, ed è convinta che esistano due verità, quella umana e quella processuale, e così utilizza la seconda per sondare meglio la prima. In questo episodio, Rudy Guede, l’unico condannato per l’omicidio Meredith, racconta la propria versione.
 
 
Lo sappiamo: per costruire un mostro basta poco, per riabilitare un condannato la fatica è parecchia. La figura di Guede è diversa da come descritta fin qui dalla stampa e dai processi mediatico giudiziari che lo raccontavano come un ladruncolo. Guede abbandona la madre in Costa D’Avorio a cinque anni e viene in Italia a vivere con il padre severo. Studia, gioca a basket, da adolescente ha una vita non semplice ma che si allontana dalla versione pigra che ci è stata raccontata prima di questo momento. “È stato descritto come il ladruncolo che penetrava negli appartamenti per rubare, ma non ci sono denunzie”, precisa Franca. In effetti una denunzia c’è, ma la si racconta nel corso della trasmissione come equivoco, come ennesimo reato forse non commesso. 
 
 
Cos’è successo quella sera? Dovremmo credere alla versione di Guede? Al fatto che lui sia rimasto in bagno per via di un’indigestione da Kebab mentre qualcuno uccideva Meredith fintanto che lui cazzeggiava con l’ipod (“Ho ascoltato tre brani di hip hop”, dice) e di essere uscito per soccorrerla quando era già troppo tardi?  Dobbiamo credergli quando accusa gli assolti e liberi Raffaele Sollecito e Amanda Knox di sapere la verità perché c’erano (al centouno percento erano loro, dice ancora). “Ma lei quindi non s’è portato il profilattico perché intendeva parlare di filosofia.  Salta il meglio della serata, parafrasando un titolo di un film, ‘Niente sesso siam inglesi’”, incalza Leosini, e noi sorridiamo e siamo lieti di questo cambio di registro che allenta la tensione. Ma mentre ci chiediamo se sia colpevole o innocente, mentre cerchiamo un segno nella sua voce o nel suo volto che tradisca una menzogna, mentre con una mano alziamo il volume e con l’altra twittiamo, ecco che ci rendiamo colpevoli. O meglio, per usare le parole di uno dei legali di Amanda Knox, Luciano Ghirga: “È il primo caso di revisione mediatica di un processo fatto con un mezzo pubblico e con soldi pubblici”. Ci stiamo trasformando in giurati di un processo tv.
 
 
A dirla tutta, noi spettatori seriali onnivori conoscevamo già un paio di buone “revisioni mediatiche”. La prima è il gioiello HBO, la docuserie The Jinx, sulle vicende processuali di Robert Durst, miliardario psicopatico intrigante. Chiunque abbia visto la serie si convince che sia proprio Durst il  colpevole pur essendo sempre stato assolto dalla giustizia; il secondo è Making a murderer, distribuita da Netflix. E’ la storia di Steven Avery, un operaio del Winsonsin poco istruito che viene erroneamente incolpato di stupro per via di uno scambio di persona: passa diciotto anni in prigione, poi esce e dopo due anni è di nuovo dentro per omicidio. Ciò che condividono quest’episodio di Storie Maledette, Making a murderer e The Jinx è il senso di sfiducia che prova lo spettatore nei confronti della giustizia. Errori processuali, sciatterie investigative, giudizi approssimativi, deduzioni fallaci. La storia dei casi giudiziari controversi è piena di materiale narrativo per show che intendono riabilitare la posizione di coloro che hanno subito presunte ingiustizie, talvolta riescondoci. Il processo mediatico così come eravamo abituati a conoscerlo, con i giudici-sceriffo che si fanno fotografare e scrivono romanzi verità, i pm-inquisitori che siedono in tv e rilasciano interviste, le criminologhe che somigliano alle loro imitatrici, i conduttori Sherlock Holmes ultra sgamati a cui non la si fa, sono storia vecchia. Oggi c’è il revisionismo processuale in tv.
 
 
Da una parte le critiche di voyeurismo e spettacolarizzazione, cioè del presentare vicende e tragedie umane come fossero semplice intrattenimento, sembrano inconsistenti se rivolte a programmi che non fanno sensazionalismo ma raccontano anche il procedimento giudiziario in tutti i suoi mal funzionamenti, persino in modo raffinato (Storie Maledette) o complesso (Jinx, Making a Murderer). Questo produce almeno due effetti. Il primo è quel fenomeno di attivismo che ha portato gli americani a firmare petizioni per chiedere che Avery fosse scagionato (sulla base di un solo documentario), e che ha fatto parlare la stampa di problemi etici (Observer) e morali (New Yorker): è giusto smettere di credere a un’istituzione statale e lasciarsi convincere da una sceneggiatura? Il secondo è la proliferazione di teorie alternative, come si trattasse effettivamente di un giallo con una soluzione a cui si arriva considerando tutti gli indizi. La natura dell’opera aperta, dove continui tasselli riempiono le pagine dei giornali e dei servizi in tv, fa sì che ci sia un continuo e rinnovato interesse, dei colpi di scena. Come le ritrattazioni della ex compagna di Avery. O come Rudy Guede, che chiede alla giustizia italiana la revisione del processo ma lo fa, sia ben chiaro, rivolgendosi in televisione a Franca Leosini.
 
 
L'illusione di sapere come sono andate le cose ci salva dal totale sconforto. E forse abbiamo bisogno di credere anche noi, come il protagonista di Making a Murderer, Steve Avary, che “la verità alla fine salta sempre fuori”.
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