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La destra del lungo silenzio

Pierangelo Buttafuoco

L’Italia non è di sinistra. E però non riesce a essere di destra. L’italiano è sconosciuto a se stesso. Anche a riconoscersi, infatti, l’italiano – in forza di Padre Pio, Totò, Giuseppe Garibaldi e Benito Mussolini (ma anche Silvio Berlusconi, anche lui) – non saprebbe dichiarare le proprie generalità.

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L’Italia non è di sinistra. E però non riesce a essere di destra. L’italiano è sconosciuto a se stesso. Anche a riconoscersi, infatti, l’italiano – in forza di Padre Pio, Totò, Giuseppe Garibaldi e Benito Mussolini (ma anche Silvio Berlusconi, anche lui) – non saprebbe dichiarare le proprie generalità. Ancor prima che gli estremi culturali, quelli della politica. Sempre taciuti e sottaciuti. Non saprebbe come raccontarsi avendo in calendario, tra le immagini care, un santo, una maschera, due teste calde (due rivoluzionari) e un gran furbacchione.

 

L’Italia che non è Nazione, purtroppo è Paese. Un “Paese normale” secondo il codice della sinistra. Così nell’aspirazione. Strapaese, invece, nell’istinto di popolo. Lo stesso che, sconosciuto a se stesso, viene poi accomodato dal mainstream nell’unica dinamica possibile dell’ideologia italiana: il populismo. “Quale percorso ha condotto la politica italiana” – è la domanda che si pone Marco Tarchi – “dopo quasi settant’anni di esperienza democratica repubblicana, a impregnarsi di una dose così forte di populismo?”.

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Se l’Italia fosse Nazione sarebbe altro. “La Destra siamo noi”, dice Giampaolo Pansa nel titolo del suo ultimo libro (Rizzoli, 410 pp., 19,90 euro). Ed è la destra che non ha diritti di cittadinanza. E’ quella del paradosso tutto italiano: la destra, identità profonda della Nazione, incapacitante che non riesce a darsi un destino politico.

 

Dell’Italia che è altro, quasi un corpo estraneo, Pansa fa un racconto di ricognizione. Comincia nel sangue della Guerra civile e finisce nella giornata di oggi, con la Lega nord che fa il comizio a piazza del Popolo, la piazza di Roma che fu, nel segno del Tricolore, quella di Giorgio Almirante.

 

Una patria, quella della destra, di milioni e milioni di italiani disconosciuti più che dagli altri, innanzitutto da loro stessi. Una moltitudine di umori che Pansa – conoscitore di ogni dettaglio, di ogni singola storia privata – convoca nel canovaccio della controstoria: “Le vicende e i personaggi di un’Italia moderata. Da Mario Scelba a Matteo Salvini”.

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L’Italia non riesce a essere di destra perché la maggioranza degli italiani è silenziosa. Ma ciò accade per mancanza di alfabeto più che di coraggio. Non ha parole, infatti, la maggioranza degli italiani e – facendo di necessità, virtù – subisce e assume quelle degli altri. Quelle della minoranza, anzi, quelle delle élite che solo in Italia, per specialissimi lombi, non si forgiano nell’elitarismo conservatore ma nella sinisteritas alto-borghese, laica e giacobina.

 

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L’Italia della destra e della sinistra è il luogo del cortocircuito. Se il compagno Peppone ha trovato in Matteo Renzi un degno erede, oltretutto nutrito da un ventennio berlusconiano, don Camillo, pur forgiato nella vena viva dell’identità della Bassa Padana, non ha mai avuto un esito di metodo e pratica di governo in conseguenza di un equivoco e di ben radicate truffe ideologiche.

 

Il fraintendimento principe sta nell’avere considerato il fascismo, un fascismo. Non voglio adesso aggiungere ambiguità all’enigma con quello che può sembrare solo un gioco di parole, intendo dire che l’Italia di Mussolini era figlia della “grande proletaria”; l’azione del “Duce” era socialismo al modo di George Sorel, era perfino modernità nel segno delle avanguardie storiche – tanto è vero che già nelle pietre del razionalismo architettonico, ancora oggi si scorge il segno di questi “corporativisti impazienti, quasi dei comunisti” – e fu, giusto tra le braci della Guerra civile, la tragedia di un’illusione: portare a compimento la rivoluzione.

 

Il fascismo, quello che si dipana dalla marcia su Roma alla costituzione della Repubblica sociale italiana, è di sinistra.
Il fascismo di Mussolini non fu fascista. Punto. Altrimenti non si capisce dove Palmiro Togliatti avrebbe dovuto andare a pescare le sue solide leve intellettuali (se non nella fornace dell’Italia modellata da Giuseppe Bottai e Giovanni Gentile). Che poi la storiografia ufficiale, nata dalla superstizione resistenziale, abbia voluto cancellare questa matrice è, appunto, materia di propaganda. Ed è valida sempre di più, a maggior ragione oggi, col ritorno in grande spolvero dell’antifascismo militante. Ma è un’altra questione. Ci tornerò tra poco. Giusto per l’attualità della giornata di oggi, a Roma.

 

Le due ben radicate truffe, infine. Una è quella cattolica. La storia della Democrazia cristiana, comprensiva del popolarismo, del solidarismo e della fabbrica tutta mentale e furba del moderatismo, altro non è che il centro, ovvero il mito della medietà a-ideologica che in mezzo secolo ha riprodotto in Italia tutto e il contrario di tutto. Se nel 1948 don Camillo può affidarsi al semplice avviso – “Attento, nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no” – al giorno d’oggi, la trasformazione del gregge di Dio in elettorato (per poi diventare ulteriormente clientela) ha portato alla dismissione dei valori non negoziabili, già belli che venduti, e al trasloco diretto nella seconda delle ben radicate truffe: quella del totalitarismo liberale dove, giusto per fare una sintesi, a beneficio dell’una e dell’altra frode, difficilmente si distingue chi e cosa stiano inaugurando al Parlamento europeo sia Papa Francesco sia Conchita Wurst, la donna barbuta.

 

L’Italia della destra e della sinistra si sono confuse, è vero, ma mantenendo chiaro chi vince e chi perde nell’agone di Paese e Strapaese: Peppone ha la meglio su don Camillo e Pansa, accompagnando in macchina Indro Montanelli che ha appena raccolto ovazioni alla Festa dell’Unità, a Modena, coglie il punto chiave. Ad applaudire il fondatore del Giornale – ossia l’anti Corriere della Sera, il quotidiano della borghesia considerato giustamente troppo di sinistra e vincolato ai salotti del potere – non ci sono i “signor Veneranda” ma i comunisti. Non ci sono, dunque, gli omini indifesi della “maggioranza silenziosa”, non i cittadini senza protettori strozzati nella morsa del Regime (come nell’immagine dell’Uomo qualunque), neppure la brava gente con il Candido (il settimanale popolare di successo fondato da Giovannino Guareschi e poi diretto da Giorgio Pisanò), a battere le mani a Cilindro sono “gli stessi che l’avevano sempre odiato”.

 

Un testacoda forse, più che un cortocircuito. La data segna 12 settembre 1994. La folla non vuole fare andare via Montanelli. I due giornalisti, stretti nella ressa di Modena, sono preceduti da Paolo Mieli (direttore del Corriere della Sera, all’epoca). Giampaolo Pansa è il condirettore dell’Espresso, il settimanale della sinistra. Montanelli, è Montanelli. Nel suo incedere tra gli stand della salsiccia comunista porta pur sempre Leo Longanesi, Berto Ricci, Giuseppe Prezzolini e il suo stesso pseudonimo con cui firmava gli articoli del Borghese, ossia Antonio Siberia. I due si parlano: “Dimmi, Pansa. Nel 1977, quando le Brigate rosse mi spararono nelle gambe in piazza Cavour, mentre andavo al giornale, anche tu hai pensato: purtroppo non l’hanno ammazzato?”. Pansa giura di no. Montanelli scuote la testa, non ci crede, quindi si tranquillizza: “Ti credo. Però almeno la metà dei comunisti che stasera mi hanno portato in trionfo di sicuro lo avrà pensato”. Pansa coglie l’occasione per un colpaccio giornalistico: “Torniamo indietro e glielo domandiamo?”. Montanelli sorride: “Non roviniamo un momento storico”. L’aggettivo è ironico. I due sono complici: “Scriviamo così e domani tutti crederanno che sia stato un momento storico”.

 

L’Italia è di Montanelli – la personalità più fortemente di destra nell’immaginario degli italiani, secondo solo ad Almirante – ma per avere una patente di presentabilità sociale, quell’Italia, fosse pure l’Italia di Montanelli, deve avere gli applausi dei comunisti. La maggioranza è inutilmente di destra mentre la minoranza, fruttuosamente di sinistra, mette a registro tutto un marchingegno dell’élite. E’ quello della fabbrica delle idee dove con due o tre concetti – con le parole d’ordine del conformismo – anche l’italiano medio può cavarsela in società. Giusto non eccedere in sottigliezze nel distinguere – ancora una volta – tra Papa Francesco e Conchita Wurst, giusto per amalgamarsi nella più inevitabile delle condanne, il livellamento dei codici di rappresentazione: mai dire frocio, equiparare l’affettività animale con le relazioni umane, congratularsi col presidente della Repubblica quando prende il tram (attenderlo al prossimo passaggio iconico, quando si butterà in strada per fare autostop…), precipitare insomma nel cascame del popolaresco bieco tipico dei Cinque stelle, non a caso campioni dell’estetica nerd, perfino antifascisti se ancora un citrullo di questi, in Sicilia, in campagna elettorale, si rifiutava di stringere la mano del candidato della Destra “in nome dell’antifascismo”.

 

Se non proprio il fascismo – fraintendimento principe – in questa storia della destra l’antifascismo, invece, vi cade a fagiolo. Col fiuto del grande cronista Pansa adotta un escamotage narrativo che anticipa un fatto di verità, specie oggi dove in piazza, a Roma, può ben realizzarsi un danno. Sceglie come Virgilio del suo viaggio nella destra “un vecchio sbirro”, Giorgio Morsi. Ed è un dettaglio, questo, magari involontario, che però la dice lunga sulla sorte della destra nell’intero arco mai concluso del Dopoguerra. Grazie a un’occhiuta strategia, nel non far finire mai il Dopoguerra si tiene vigile e pronta sempre l’eterno conflitto, quello della Guerra civile.

 

Vengo e mi spiego. In altri articoli, sempre a proposito di questo tema, ho citato un episodio che Pansa oggi racconta in questo suo libro. Serve a capire quanto forte ormai sia l’intossicazione, a maggior ragione rispetto a ciò che era la società italiana fino a ieri. Molto più pacificata rispetto a oggi. Pansa ricostruisce l’atmosfera a metà degli anni 60. E’ la sua giovinezza in un quotidiano, il Giorno, diretto da Italo Pietra. Ed ecco il brano: “Erano caposervizio, grafici, redattori esperti, tutti professionisti di valore. Loro non nascondevano di essere stati militari della Rsi. Pietra, ex comandante partigiano, qualche volta gli chiedeva, per uno scherzo bonario: ‘Chi di voi ha bruciato la mia casa nell’Oltrepò pavese, durante il rastrellamento dell’agosto 1944?’. Tutto si concludeva tra le risate”.

 

Le risate tra ex nemici, possibili allora, con il rovente marchio di sangue ancora impresso nelle carni sono impossibili oggi, anno di grazia 2015, perché l’eterna guerra civile tra italiani ha visto rinnovarsi nelle braci di operazioni che se non fossero tragicomiche sarebbero imbarazzanti rispetto al dettaglio – magari involontario – del “vecchio sbirro” cui Pansa affida il suo dialogo di ricognizione.

 

[**Video_box_2**]Chiedo al lettore uno sforzo di memoria: il golpe d’Abruzzo di neppure troppi mesi fa. I giornali vi fecero le aperture di prima pagina a nove colonne. Comunicati d’indignazione redatti da autorevoli tromboni invocavano il dovere civile di tenere alta la guardia contro l’insorgenza nazifascista. I Ros, reparto speciale dei carabinieri, sono incaricati di investigazione politica e sventano un’azione eversiva. Mostrano in video un tapino col “Mein Kampf” in mano e la magistratura inquirente individua quale “grande vecchio” nientemeno che Rutilio Sermonti. Quest’ultimo è un magnifico ambientalista. E’ un allievo di Konrad Lorenz, un esperto di nativi indiani, un fascistissimo per carità, certo, ma ultranovantenne e sordo come un macigno di duro marmo. Quando all’alba si vede bussare alla porta dalla forza pubblica, urla: “Chi siete? Andate via o chiamo la polizia”.
Si sa che valenti agenti segreti spulciano tra i profili fb dei ragazzini per far la somma di Credere, obbedire, combattere. Il ritorno dell’antifascismo, nella versione del golpe finito poi a fischi e piriti, quasi la riedizione del “Vogliamo i colonnelli”, è stata la medaglia al petto di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, e siccome quattro scemi non sono mai un pericolo ma una distrazione di massa quello sì, lo sono, un pensierino per la giornata di oggi si deve pur fare. Ci fosse qui lo sbirro che dialoga con Pansa saprebbe spiegarlo ma la strategia della tensione coincide sempre con la geometria del potere costituito.
Mi ripeto: tutto ciò che non è conforme, va smontato. Nel 1971 Giorgio Almirante, col Msi, ottiene un fragoroso successo elettorale. Dopo di che, comincia la stagione delle stragi e delle trame nere. Oggi, Matteo Salvini, leader di fatto della destra non conforme, si presenta a Roma. Secondo Marco Tarchi (autore de “Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo”, il Mulino, 380 pp., 17 euro), Salvini è un leader fatto “a immagine e somiglianza dei più fedeli seguaci”. La Lega che arriva oggi a Roma, sempre secondo Tarchi, “è un movimento populista di massa, ben diverso dai movimenti di estrema destra a cui impropriamente qualche osservatore si ostina ad accostarla ma anche dei movimenti regionalisti tuttora attivi in vari paesi d’Europa” . Oggi, Salvini, arriva a Roma. Non è che “niente-niente” ricomincia la strategia della tensione? E’ solo una domanda. Il potere, si sa, pretende sempre dalla geometria.

 

Ancora due cose. Cresco in una casa dove ogni settimana arrivano il Borghese e il Candido. Gianna Preda è argomento di discussione. E così Giorgio Pisanò, quasi uno di casa. Tanto è un rito leggerli. E’ mio destino arrivare al Secolo d’Italia. Vi arrivo.

 

Da ragazzo, ricordo bene, fu una festa in famiglia sfogliare la prima copia del Giornale. Era un’allegria quella militanza nel torto. E oggi che tutto questo non c’è più, grazie a Pansa, immergendomi nelle pagine del suo libro, lo comprendo meglio. Quella stagione di “esuli in patria” (ancora un’immagine di Tarchi), italiani forgiati in un impasto intimo e profondo e perciò sconosciuti alla verità ufficiale è qualcosa di inesplorato anche per chi vivendone i fuochi, avendovi radici, non ha mai saputo trovare il modo di raccontarlo.

 

Ancora due cose, dunque. La cartolina da Redipuglia. Me la invia don Michele Sanfilippo, il segretario della sezione Combattenti e Reduci di Agira. E poi il racconto di zia Santina. Devota donna di chiesa, soffre nel disobbedire al parroco di Leonforte che le dà indicazione precisa di votare Democrazia cristiana. Parte in pellegrinaggio per San Giovanni Rotondo e s’inginocchia al confessionale di padre Pio: “Si fa peccato a votare per il Movimento sociale italiano?”, domanda quasi rassegnata a sopportare l’insopportabile, ossia l’ordine di votare Scudocrociato. Il santo frate, dalla penombra del graticcio, tuona: “Si fa peccato grave a non votare la Fiamma tricolore!”. La Destra è zia Santina.

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