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Errore di casting

Maurizio Crippa

Bisogna essere bravi per fare di James Gandolfini un padrino in crisi di Es. Ma Remo Girone capo della Piovra edificò nella psiche pop della nazione una favola dell’antistato più duratura degli impianti accusatori dei processi d’antimafia.

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Poi alla fine la differenza tra il verosimile e la panzana, ché oltre la soglia del processuale la verità non è di questo mondo, la fa il casting. Bisogna essere bravi per fare di James Gandolfini un padrino in crisi di Es. Ma Remo Girone capo della Piovra edificò nella psiche pop della nazione una favola dell’antistato più duratura, e solida, degli impianti accusatori dei processi d’antimafia. Prima o poi però lo showdown deve arrivare. Non si costruisce per decenni una narrazione infinita, non si tiene l’Italia imbottigliata nel doppiofondo del terzo livello, della realtà nascosta e rivelata solo agli Onesti, senza poi arrivare all’armageddon, alla puntata finale.  Portare il Boss dei Boss in Aula contro il Capo dello Stato. Rendere il Capo dello stato e quello dell’antistato indistinguibili, come nella Finzione del Traditore e dell’Eroe – “In tribunale ‘per capire chi mi ha venduto’ la sfida di Riina al Colle”, nel forsennato titolo di ieri di Rep. E’ lo showdown, l’ultimo episodio, o l’ultima spiaggia di una procura di Palermo che può solo sperare di vincere tutto il piatto. Mah.

 

Screenplay di un colpo di stato. Il racconto si costruisce a pezzetti, a parole chiave che lasciano vaghi ricordi, date in pasto come le briciole di Pollicino. Nomi che volano di fantasia, ma che si fanno melma quando cadono sulla terra. Ora è il Protocollo farfalla, prima era stato il Bacio. Poi venne lo Stalliere. Alla narrazione servono dettagli che si fissino nelle menti. Per Mori la parola è Covo, quello di Riina che non setacciò. Per Napolitano è Trattativa. Nuvole di agende rosse, di zone grigie. Da anni, negli uffici di procura e nelle botteghe di giornale, nei brogliacci di interrogatorio e nelle propalazioni pronto stampa si tesse la trama di “domande senza risposte”, di dubbi invariabilmente “inquietanti”, sospesi all’infinito come trailer di film. E’ come una stampante in 3D. Chi genera il format comanda, gli ingredienti sono fango e illazioni, alla fine viene fuori una tridimensionale Verità Nascosta. Fatta di merda. E’ la favola che da anni, generazioni artigiane oramai, come i fratelli Grimm, raccontano alla procura di Palermo, con i volenterosi aedi.

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[**Video_box_2**]Ma alla fine, tutto sta nel casting. Dell’impossibilità del Divo Giulio a baciare chicchessia, aveva già fatto giustizia Montanelli (sebbene il bacio eventuale fosse di Riina a Andreotti). Ma il padrone delle tessere siciliane, silenzioso e operoso con l’amico Lima, aveva una sua plausibilità caricaturale, di piovra repubblicana. La Brianza degli anni Settanta era il luogo in cui giravano più danée e col più alto tasso di sequestri di persona d’Italia. Un imprenditore bauscia con un amico che lo aiutasse nell’export isolano e gli consigliasse uno stalliere, che è meglio avere uno di fiducia, coi figli piccoli e la villetta isolata, era un poliziottesco farlocco, ma lo stavi a vedere. Trasformare Berlusconi in Padrino era comico, però la stampante del fango ha corso vent’anni. Poi anche i Cianciminielli s’impataccano. La salvezza è lo showdown. Però prendere un signore che sembra ritagliato nel tweed, stile inglese e formale fino a sembrare legnoso, e farne il nostro uomo a Palermo. Prendere insomma Giorgio Napolitano e buttare fango a palate nella 3D della trattativa, provando a trasformare il Capo dello stato nel Capo dei boss, come non era riuscito ai maghi degli effetti speciali nemmeno con il Divo romano o il cumenda del nord, è un’operazione truffalda per estetica e senso del ritmo, prima che per etica e verità di storia e politica. Il pubblico è sofista, alla biacca non crede più. E’ un trentennale plot che rischia di finire in vacca. Per colpa della stampante 3D che s’è inceppata. E di un protagonista scelto male, non verosimile.

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