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Quel tic sinistro sul modello tedesco

Redazione

“A Berlino, a Berlino!”. Dietro il nuovo mantra antirenziano della minoranza del Pd c’è qualcosa di più dell’innamoramento fulmineo di Pier Luigi Bersani e dintorni per le riforme del lavoro attuate in Germania nel 2000-2003. Se Pd e Cgil riscoprono la “superiorità culturale” per frenare Renzi.

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Roma. “A Berlino, a Berlino!”. Dietro il nuovo mantra antirenziano della minoranza del Pd c’è qualcosa di più dell’innamoramento fulmineo di Pier Luigi Bersani e dintorni per le riforme del lavoro attuate in Germania nel 2000-2003, verso le quali fino a ieri la vecchia guardia ex Ds e Cgil non aveva manifestato particolare trasporto. Qui, in quel periodo la Cgil di Sergio Cofferati riempiva il Circo Massimo contro riforme simili studiate da Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi, uccisi dalle vecchie e nuove Br. Questo per la memoria. Ora c’è l’ennesima riproposizione di un’idea esclusiva e proprietaria delle riforme economiche – dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle tasse ai poteri delle regioni – idea parallela a quella che Sergio Marchionne ha definito “concezione proprietaria del posto di lavoro”, e basata sull’assunto di sempre: la superiorità accademica, professionale, culturale e morale della sinistra stessa.

 

Del resto Bersani non aveva battezzato “Italia bene comune” la sua coalizione per Palazzo Chigi nel 2013? Ora l’ex segretario e  mancato premier, in opposizione alla sfida lanciata alla sinistra classista e alla Cgil da Matteo Renzi, invoca “anche domani” il mercato del lavoro tedesco, e con lui Cesare Damiano, ex Cgil ed ex ministro del Welfare di Romano Prodi, oggi presidente della commissione Lavoro della Camera. Eppure nelle leggi che Gerhard Schröder affidò all’ex top manager Volkswagen Peter Hartz il ruolo preponderante è affidato all’apprendistato, alla cogestione aziendale, ai mini jobs da 450 euro, alla sostituzione di fatto del reintegro giudiziario dei lavoratori con un’indennità di metà stipendio mensile per ogni anno di anzianità, anch’essa certificata dal sindacato d’azienda. Ebbene, quel modello è lo stesso che l’ex classe dirigente del Pd e della Cgil hanno sempre osteggiato. Ultimo caso, ad aprile scorso quando Damiano, Stefano Fassina (ex responsabile economico Pd) e Carlo Dell’Aringa (ex sottosegretario di Enrico Letta, già presidente dell’Agenzia per il pubblico impiego e portato alla Camera da Bersani) ingaggiarono un braccio di ferro con il governo proprio sul rilancio del ruolo degli apprendisti. Non solo. Nel 2012, contro il governo Monti che voleva importare le leggi del lavoro tedesche, il Pd fece le barricate, dalle quali scaturì l’ingarbugliamento di Elsa Fornero sull’articolo 18.

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Per non parlare della contrattazione aziendale: quando Sergio Marchionne l’ha introdotta nelle sue fabbriche italiane, rottamando i contratti nazionali e uscendo dalla Confindustria, non solo la Fiom e la Cgil, ma proprio Bersani definì quella scelta “un grave problema”. Marchionne divenne il nemico pubblico numero uno, eppure non voleva licenziare o creare mini jobs, ma soltanto applicare un aspetto del “modello tedesco”, quello della contrattazione aziendale. E dunque di che cosa stiamo parlando oggi? Di che parla Bersani quando dice che “in tutta Europa i lavoratori vengono riassunti dal giudice” ben sapendo che non è vero? Tralasciando la Scandinavia, la Spagna e l’Inghilterra, che hanno flessibilizzato al massimo i licenziamenti, nel 2013 anche la Francia ha di fatto sostituito la tutela giudiziaria dei lavoratori con indennizzi economici trattati con i sindacati la cui rappresentatività sia riconosciuta in azienda.

 

[**Video_box_2**]In realtà quel che difende la sinistra non è il merito delle proprie ricette retrò. E’ il metodo che rivendica a sé una diversità etica, quasi fisiognomica, rispetto a un Renzi che, nientemeno, tratta con educazione un Verdini (per non dire il Cav.). I laudatores del Letta jr. scomodarono il “dress code” tipico di chi frequenta i bei circoli “studiando i dossier”: e cioè blazer su pantaloni chino e camicia oxford. Tommaso Padoa-Schioppa esaltava “le tasse bellissime” in un governo che aumentò di tre punti la pressione fiscale. Vincenzo Visco, l’ex ministro delle Finanze che si inventò l’Irap, ha lanciato un giornale online, “Il campo delle idee”, del pensatoio Nens suo e di Bersani. Primo obiettivo, “suggerire una contro-agenda fiscale a Renzi”. Un riflesso pavloviano che nel 2006 produsse il referendum per smantellare la riforma costituzionale del centrodestra (che prevedeva l’abolizione del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, il rafforzamento dei poteri del capo del governo). E questo dopo aver concesso alle regioni, nel 2001, i poteri di spesa senza controllo. E’ una storia lunga, e non c’è bisogno di scomodare la famosa diversità di Enrico Berlinguer, che in suo nome perse il referendum anticraxiano sulla scala mobile. Basta tornare all’oggi: tra le regioni che non rinunciano al vitalizio per i consiglieri (abolito da Monti nel 2012) spiccano Lazio e Sicilia. Due terre “de sinistra” strappate alla destra naturalmente impresentabile.

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