(foto Olycom)

Il romanzo di Bobo Maroni / 1

I Seventies a Varese di un ragazzo di parrocchia, tra Marx e radio libere

di Cristina Giudici e Marianna Rizzini

E’ il 1969. Varese non è campagna e non è metropoli. Ma per Roberto Maroni, ragazzo di parrocchia che si affaccia al liceo Cairoli senza dimestichezza col mondo e con un pantalone corto di allure contadina, Varese è tutto. Ed è l’inizio di tutto

E’  il 1969. Varese non è campagna e non è metropoli. Ma per Roberto Maroni, ragazzo di parrocchia che si affaccia al liceo Cairoli senza dimestichezza col mondo e con un pantalone corto di allure contadina, Varese è tutto. Ed è l’inizio di tutto. E’ il 2011, dopo Pontida. Roberto Maroni, ministro dell’Interno leghista nel governo Berlusconi IV, si sveglia  con i giornali che commentano lo striscione leghista del giorno prima, quello su cui campeggia la scritta “Maroni presidente del Consiglio”. “Siamo barbari sognanti”, ha detto Maroni ai fan accalcati sul prato, cancellando con quella specie di ossimoro anni di immaginario folk sul leghista verde che beve birra con le corna da vichingo sul cappello. Tempo due ore, e niente è più come prima. L’Economist prepara un altro dossier, il secondo in un mese dopo quello contro Berlusconi: il dissidio interno alla Lega danneggerà il governo, è la tesi, e Maroni è l’alternativa (a Bossi? a Berlusconi?). Peggio per Maroni, dice Bossi. Maroni un po’ smussa e un po’ no, ma chissà se è davvero tutto ancora come quando nel ’99 Bossi paragonò Maroni a “un aquilone che sta lontano da chi ha in mano il filo” e Maroni rispose: “Gli aquiloni volano alto, hanno visione d’insieme… però Bossi è il mio segretario”.

E’ il 1969 e l’adolescenza ingrata chiede una qualche passione rivoluzionaria al giovane Roberto detto Bobo, un ex chierichetto con talento d’organista che il ’68 “l’ha vissuto da lontano”, come disse a Carlo Zanzi che lo intervistava per il libro “Maroni l’arciere”. Sono due anni ibridi al ginnasio, poi arriva il 1971. C’è il pomeriggio che annoia, la versione di greco, il gruppone di amici, le meglio e le peggio gioventù che si muovono sullo sfondo. E se il gruppone si intruppa nel Movimento studentesco, in anni in cui soltanto quello c’è, a Varese, quasi quasi si va a dare un’occhiata, tanto più che in classe ha parlato di nuovo quel professore, Cesare Revelli. Storia e filosofia. Marx. Non so se stare con lui o contro di lui, pensa Roberto, già sedotto. Marx voleva dire  adesione a uno sciopero, a un corteo, alla lettura del Manifesto. A Zanzi Maroni dice: “Non è vero che ho fondato un gruppo marxista-leninista. Partecipavo, niente di più”. Qualcosa resta. “In fondo un pezzettino del mio cuore batte ancora a sinistra”, scrive il Maroni del ’94 nella postfazione al libro di Giovanna Pajetta “Il grande camaleonte”, ed è una lettera aperta al Pds sconfitto di ieri che potrebbe andare bene anche per il Pd vincitore senza gloria di oggi: voi non avete coraggio, voi avete fatto vincere Berlusconi (il Berlusconi del cui governo Maroni in quel momento fa parte), “io ho mantenuto la coerenza di chi ha voluto fare la rivoluzione… perché in Italia sostituire la Dc al governo è una rivoluzione”. Cara sinistra tu non crei più niente, dice Maroni, e io invece volevo creare.

L’occasione creativa era arrivata nel ’76, con l’impiego saltuario in una radio indipendente, Radio Varese. Frequenza 100 e 700, tre scimmiette che salutano come logo. C’è il professore Sergio Lovisolo. La voce martellante Maria Bianucci. Il poeta e futuro medico Dino Azzalin. Il soulman poi giornalista Elio Girompini. Al giovane Maroni tocca, burla del destino, un programma sulla storia e le tradizioni locali intitolato “L’altro ieri”, colonna sonora di Nanni Svampa, considerato “spazzatura dai duri e puri dell’avanguardismo radiofonico”, dirà Maroni nella prefazione al libro “Cento e settecento” (ed. Nem). Invece, scriverà poi Bobo, “era il nuovo che avanzava, l’onda anomala che avrebbe travolto tutte le certezze di una sinistra miope e già vecchia”. E il giovane Maroni l’avrebbe scoperto di lì a poco.

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