Lippi calzelunghe

Claudio Cerasa

“Continuiamo a giudicare il calcio italiano in base all'Inter, che è una grandissima squadra ma non si può parlare di calcio italiano, perché non c'è neanche un italiano”. Le ruvide parole tra virgolette le ha enunciate pochi giorni fa il commissario tecnico della Nazionale italiana Marcello Lippi, subito dopo la vittoria dell'Inter di José Mourinho contro il Chelsea di Carletto Ancelotti. Il ct della Nazionale, probabilmente nostalgico di quella sua sfavillante Inter in cui in mezzo al campo pascolavano felicemente italianissimi campioni come Salvatore Fresi, Fabio Galante, Fabio Macellari, tradisce però un po' di ingenuità.

    Continuiamo a giudicare il calcio italiano in base all'Inter, che è una grandissima squadra ma non si può parlare di calcio italiano, perché non c'è neanche un italiano”. Le ruvide parole tra virgolette le ha enunciate pochi giorni fa il commissario tecnico della Nazionale italiana Marcello Lippi, subito dopo la strepitosa vittoria dell'Inter di José Mourinho contro il Chelsea di Carletto Ancelotti. Lippi – che da un po' di tempo a questa parte non sembra nutrire una grande simpatia nei confronti di un tecnico come Mourinho, da cui invece forse qualcosina potrebbe persino imparare – rimprovera sostanzialmente alla squadra campione d'Italia una scarsa attenzione per il suo “profilo italiano” e una insufficiente considerazione nei confronti dei calciatori del nostro paese. Il ct della Nazionale, probabilmente nostalgico di quella sua sfavillante Inter in cui in mezzo al campo pascolavano felicemente italianissimi campioni come Salvatore Fresi, Fabio Galante, Fabio Macellari, Matteo Ferrari, Francesco Colonnese e Cristian Brocchi (era il 2000, e grazie al cielo di tempo ne è passato), nella sua non proprio lucidissima analisi sull'italianità del calcio italiano tradisce però un po' di ingenuità.

    Innanzitutto si potrebbe dire che immaginare il campionato italiano come un mondo in cui a rappresentare i colori della nazione devono essere i giocatori e non invece le stesse squadre che il campionato lo compongono, beh, è come credere che una grande azienda italiana debba essere necessariamente composta da una maggioranza di dipendenti italiani per non perdere il suo carattere di campione nazionale: un po' un'assurdità, no? Per dire: salterebbe mai a qualcuno di criticare, chessò, l'Arsenal per tutti i formidabili stranieri che ha in campo? E il Barcellona? E il Manchester? Evidentemente no: perché, come sanno perfettamente tutti gli amanti del calcio, la missione principale di una squadra che come l'Inter lotta – speriamo a lungo – per conquistare traguardi internazionali è quella di raggiungere gli obiettivi con i migliori giocatori che il mercato offre; e se questi sono italiani bene, e se non lo sono, oh, pazienza. Quanto al resto in fondo basterebbe dire che, come altre squadre che schierano in campo molti giocatori italiani, l'Inter di Mou è italiana per il semplice fatto che colui che la governa (Massimo Moratti) rappresenta l'italianità in modo più che esaustivo.

    Detto questo però il protezionismo a parole del commissario Lippi – di certo nostalgico di quella sua Inter in cui accanto a Fresi, Galante, Macellari e Brocchi, pascolavano felicemente in mezzo al capo anche altri talenti molto apprezzati da Lippi come Stephane Dalmat, Marcos Vampeta, Francisco Javier Farinós e Vratislav Gresko (solo chi è interista può capire che razza di brividi mettono questi nomi qui: grazie Marcello) – nasconde anche un piccolo problema culturale. E' infatti anche grazie alla libera concorrenza del mercato italiano – e alla presenza nel campionato di squadre dal profilo internazionale come l'Inter, of course – che quattro anni dopo aver vinto i Mondiali del 2006 Lippi si ritrova ad avere anche quest'anno una squadra che arriva in Sudafrica con un profilo più che competitivo.

    Tanto per fare un esempio, se il campionato fosse costretto a vivere – come successo nel nostro paese qualche tempo fa, e con pessimi risultati, con il mondo del basket e come forse sogna Lippi – all'insegna di un regime capace di imporre alle società di schierare obbligatoriamente in campo una tale quota di giocatori italiani per il semplice fatto che questi giocatori sono italiani, ecco, molto probabilmente Lippi non si sarebbe mai ritrovato con una squadra in grado di fargli vincere gli ultimi Mondiali di calcio. Nel senso che è merito di squadre “non italiane” come l'Inter se negli ultimi tempi i nostri giocatori hanno avuto la possibilità di confrontarsi – migliorandosi di giorno in giorno – con alcuni tra i migliori calciatori del mondo già in campionato, e senza aver avuto la necessità di aspettare di sgambettare con chicchessia in campo internazionale; ed è merito naturalmente anche di squadre “non italiane” come l'Inter se nel nostro campionato sono nati fenomenali giovani calciatori (vedi Balotelli e Santon: toh, tutti e due dell'Inter) che hanno fatto tesoro della possibilità avuta di confrontarsi non con i migliori giocatori italiani ma con alcuni tra i migliori del mondo. (Provate solo a immaginare che piedi avrebbe avuto Santon se fosse cresciuto accanto a Fabio Macellari e che classe avrebbe avuto Balotelli se fosse cresciuto sotto gli occhi attenti di Bruno Cirillo o i baffi vigili dell'indimenticabile Vampeta).

    La verità, che forse non farà piacere al commissario della Nazionale, è che oggi l'Inter vince raccogliendo il meglio che si trova in giro, e non – come invece succedeva spesso a Milano sotto lo sguardo sempre attento di Lippi – raccogliendo in giro tutto il peggio possibile e scambiandolo per il meglio. Vedrete però che quando il ct capirà quanto sono importanti per il paese, e anche per gli stessi giocatori con cui tenterà di vincere i Mondiali, multinazionali italiane del calcio come l'Inter (capaci di esportare anche con giocatori stranieri il tricolore italiano in giro per il mondo) alzerà subito il telefono e invece di prenderlo ancora a schiaffi sarà costretto a ringraziare, anche lui, il filosofo di Setùbal.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.