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Capovolgimenti arabi e il calcio come metafora della vita

Andrea Mercenaro

Le cose che stanno accadendo in Arabia Saudita, e non solo. Tra tutte, il caso Roberto Mancini

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Cuper, l’inglese che in Italia allenò perfino l’Inter, si è beccato un cappotto dalla panchina della sua Siria, lui ha pianto in diretta come una fontana, gli stanno dicendo di fare le valige. Cristiano Ronaldo, star di Portogallo, inghilterra, Spagna, Italia, o meglio, Juve, al momento in Arabia Saudita, non ha giocato ieri sera contro Messi, ufficialmente perché sta male, ufficiosamente perché comincia a star sul cazzo all’arabo. Roberto Mancini, stella del calcio e delle panchine europee, le ha prese a Doha dalla Corea del Sud, ha abbandonato lo stadio prima che i suoi battessero l’ultimo rigore e si è beccato dal presidente della locale Federcalcio, Yasser al-Misehal, una lavata di capo che l’ha indotto a un fierissimo: “Chiedo scusa a tutti, non mi ero accorto, continueremo a costruire il futuro del calcio saudita. Ringrazio i nostri coraggiosi giocatori”. Che pareva Cesare Battisti, l’irredentista nostro, con la divisa austriaca.  E i principi sauditi già stavano indossando gli stivali. Dopodiché, capita. Ma se il calcio è metafora della vita, alé, altre mutande in piombo doppio per l’Europa.

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