La fiction Rai su Mafia Capitale vorrebbe far discutere, ma invece annoia e basta

Serena Magro

Luoghi comuni e citazioni. Ma niente sulla ciccia della sentenza

Roma. L’impegno registico e di interpretazione è tutto nel trovare un attore simile a Marco Carminati, mettergli una benda su un occhio e farlo aggirare con aria torva (più scocciata che torva) per le zone di Roma didascalicamente appropriate: il benzinaio di corso Francia, lo studio del prestigioso (sic) avvocato, la villa hollywoodiana (sic), la scalinata dell’Eur sotto al Palazzo della civiltà del lavoro. L’impegno della sceneggiatura invece, in questa fiction Rai sui 1.000 giorni di Mafia Capitale (le maiuscole sono nell’originale e ci ricordano che quando diciamo la verità la diciamo in minuscolo) è tutto affidato a una voce narrante, assertiva fino a intimidire lo spettatore. “Per chi di voi avesse ancora dubbi”, dice, e si vorrebbe reagire come Massimo Troisi di fronte alla pressante domanda su chi avesse preso i soldi del Belice. Dubbi no, non ce ne sono, ma neppure l’evidenza viene minimamente presa in considerazione. Ai dubbi, sceneggiatori e regista si sottraggono con un racconto auto-ipnotico, l’evidenza liquidata con una frase, “fa discutere”, l’escamotage giornalistico per liberarsi di un argomento che non si può confutare in modo esplicito. La voce narrante, con enfasi, informa che “questa è la storia di un’indagine, finita con una sentenza che fa molto discutere”. Non solo discutere: “Molto”. E però, prima che la voce narrante ci intimidisca, vorremmo dire che trattasi di sentenza. In cui in modo chiaro si afferma che secondo le tipizzazioni giuridiche del reato di associazione mafiosa e in base alle stesse condotte materiali che individuano l’agire mafioso, a Roma c’è stato tanto da contestare agli imputati e abbastanza per condannarli, ma non si può usare l’espressione “mafia”.

 

Eppur bisogna raccontare. Con evidente fatica, anche narrativa: perché si sta rimaneggiando roba che è stata prima, anni fa, romanzata, fictionata, serializzata, iconizzata. Poi spremuta da tutto il giornalismo possibile e immaginabile. Quindi ri-raccontata in tribunale e infine, ops, mandata a sentenza. A chi ha curato i 1.000 giorni di Mafia Capitale toccava riprendere da capo, come se niente fosse, il racconto di un racconto di un racconto. Impossibile essere anche minimamente interessanti, figuriamoci poi ottenerne un prodotto di qualità o anche appena avvincente. Niente idee, niente dubbi, perfino niente fatti (almeno se ne cerchiamo di chiari e distinti), e la povera voce narrante, pur tentando di darsi aria credibile con un po’ di roco e di romano nell’inflessione, sbanda nel luogo comune, tra cerchi che si stringono, indagini accurate, losche operazioni azionarie e “Ostia Lido dove la città di Roma si estende fino a toccare il mare” (immagini ovviamente con un po’ di spiaggia in inverno). Si allude, ci si prova, ma debolmente. Più che un j’accuse o un “io so ma non ho le prove” è un “si dice così perché l’ho letto sul giornale”. Si citano conduttori che citano altri che citavano altri ancora. Appare Nicola Porro che a Virus mostrando di crederci, diceva che “Carminati è l’uomo con cui tutto è cominciato” e poi Massimo Giannini su Ballarò a dire cose simili, inverando nel talk ciò che altri avevano asserito (interessante che la Rai usi a supporto di fiction impegnative conduttori di cui ha poi ritenuto di non avvalersi più). Presto si gira sul comico involontario, con l’uomo misterioso cui viene rapidamente dato un “nome e un volto cercando nel profilo social della cooperativa per cui lavorava”. Indagini sopraffine, insomma. Allusioni un po’ alla buona perfino nella musica introduttiva, una specie di stornello romano leggermente reagaezzato e con un vago sentore siciliano nell’arrangiamento. Potevano anche finirla lì e lasciarci leggere il giornale in pace.

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