Fabio Fazio, Daniela Zuccoli, Fiorello (foto LaPresse)

I talk show da sbarco non tirano più. Gli italiani preferiscono le series

Renzo Rosati

Billions e Fiorello valgono più della Santoro Inc.

Roma. Negli ultimi anni la televisione ha perso tre milioni di persone che hanno scelto modalità di intrattenimento alternative: streaming, social network, broadcaster come Netflix, Amazon Prime, Now Tv e Sky go, le ultime due emanazioni web della pay di Rupert Murdoch. Nel primo trimestre 2017, in piena alta stagione televisiva, il calo si è accentuato con l’esodo record dallo schermo tradizionale di altri 600 mila spettatori. Sono i dati dell’osservatorio dell’Autorità garante per le comunicazioni, dai quali emerge però che allo stallo delle reti generaliste Rai e Mediaset (36 e 31 per cento di share nel 2016) si contrappone la vivacità della tv a pagamento – Sky fa più 15 per cento conquistando la quota del 6,7 – e dei canali tematici quali quelli Rai, o Tv 8, canale in chiaro di Sky, Nove di Discovery Italia, Paramount di Viacom. Dietro alle cifre c’è ovviamente altro. Se prima gli spettatori si ingolosivano per i diritti sportivi oggi Champions e serie A tirano meno, mentre reggono Formula 1, motociclismo e tennis. Non è più lo sport a modificare i rapporti di forza.

 

L’ingessata programmazione generalista è ancora centrata sui contenitori domenicali dove Massimo Giletti e Barbara D’Urso ripropongono (pure loro) in salsa populista gossip, cronaca nera e politica. A sera sbuca il pol. corr. di Fabio Fazio, che con ospiti sempre con libro da presentare non sarà mai David Letterman e neppure Jimmy Fallon. Ripresosi dal calo di ascolti Fazio è ora dedito al “lascio-non lascio la tv pubblica”, destinazione (pare) La 7. La vera differenza l’ha fatta il crollo inarrestabile dei talk show da sbarco. Scomparso dai radar Michele Santoro con Servizio Pubblico mutato in “multipiattaforma web”, con tanto di Onlus e donazioni degli aficionados, resistono, oltre a Fazio, Otto e mezzo, Bianco e nero, Di martedì, La gabbia, Piazza pulita (La 7); Presa diretta, Porta a porta, Report, Cartabianca, Nemo (Rai); Quinta colonna, Quarto grado (Mediaset). Troppi, e con personaggi talmente immutabili da tramutarsi da conduttori in ospiti (Massimo Giannini), e soprattutto quasi tutti in crisi di ascolti.

 

Negli ultimi sei mesi Giovanni Floris (Di martedì) è passato dal 7 per cento medio al 4,5; Gianluigi Paragone (La gabbia) dal 4 al 2,5, mentre Politics con l’ex fenomeno di Sky Gianluca Semprini ha chiuso in anticipo: segno che quel che funzionava sulle reti tematiche non regge ai riti generalisti. Non vanno bene le felpe esagitate di Matteo Salvini e Maurizio Landini, i diktat di Piercamillo Davigo, la sicumera al limite della gag tipo Gustavo Zagrebelsky, uno dei pochi fallimenti del No al referendum costituzionale. Se si vuol capire l’equilibrio dei poteri in un sistema giudiziario alla pari, quello americano, bisogna vedersi Billions, su Sky, dove il procuratore del distretto sud di New York interpretato da Paul Giamatti gioca sporchissimo esattamente come il suo nemico spregiudicato finanziere Damian Lewis. Le storie ben confezionate dalle serie tv stracciano le chiacchiere.

 

A quando le reti italiane avranno il coraggio di raccontare le guerre di potere del palazzo di giustizia di Milano, i pasticci complottisti della procura di Trani, o magari le gesta di Tonino Ingroia? E perché Fiorello e Alessandro Cattelan piacciono più della ditta Santoro & Travaglio? Forse perché non hanno la bava alla bocca? Non solo. A fuggire dai talk show sono i più giovani e i più istruiti. A giudicare credibili magistrati come Davigo e sindacalisti come Landini e Susanna Camusso sono gli elettori di Beppe Grillo, i pensionati, gli iscritti ai sindacati. Il pubblico identitario. Inseguirlo sul suo terreno può andar bene per un po’. Poi, Santoro docet, l’investimento è in perdita.

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