Foto LaPresse

Lo scandalo russo della Silicon Valley mostra che la dittatura dei clic è la tomba della democrazia

Eugenio Cau

I giganti tecnologici sono diventati un pericolo per la democrazia? Facebook e Google, oggi, hanno un monopolio quasi assoluto su alcuni elementi chiave delle democrazie occidentali

Era successo con Big Food e Big Tobacco, con i grandi network televisivi negli anni Duemila, al culmine della loro potenza, e adesso è arrivato il turno di Big Tech. Tra ieri e martedì tre diverse commissioni del Congresso americano hanno sentito in udienza i rappresentanti legali di Facebook, Google e Twitter ponendosi una spaventosa domanda di fondo: i giganti tecnologici che possiedono i nostri dati personali e controllano il modo in cui i cittadini si informano sono diventati un pericolo per la democrazia?

 

I giganti stessi, interrogati, non hanno fornito risposte soddisfacenti. Tutti e tre sono stati accusati di essere diventati strumento inconsapevole di una campagna di disgregazione del tessuto sociale e democratico americano (e occidentale) portata avanti da una potenza straniera, la Russia. Su questo non ci piove: tutti e tre hanno ammesso di essere stati la piattaforma di diffusione di falsità e disinformazione da parte di agenti russi coordinati a livello centralizzato, e hanno ammesso che queste falsità hanno raggiunto centinaia di milioni di elettori prima e dopo la campagna elettorale americana dell’anno scorso.

 

Ora però la questione da risolvere diventa se possibile più grande, e cioè: potrebbe capitare di nuovo? Potrebbe succedere all’Italia o alla Germania di essere attaccate al cuore del sistema democratico dall’Iran o dalla Corea del nord? Insomma: lo strapotere dei social network è diventato un problema per la tenuta dei nostri sistemi democratici? I legali di Facebook, Google e Twitter, davanti alle domande pressanti di senatori e deputati, si sono attenuti al copione scritto, hanno ammesso i problemi ma vi hanno fatto fronte annunciando cure palliative: più assunzioni per monitorare i contenuti controversi, più intelligenza artificiale e così via. Nessuno ha voluto ammettere che ormai Google e Facebook sono “media company”, vale a dire società editoriali con una responsabilità sui contenuti che ospitano, e nessuno ha voluto sostenere le iniziative legislative che chiedono più trasparenza. Per la Silicon Valley, se un errore c’è stato è ormai in fase di risoluzione, e bisogna sbrigarsi a far tornare tutto come era prima. Non basta.

 

Facebook e Google, oggi, hanno un monopolio quasi assoluto su alcuni elementi chiave delle democrazie occidentali: l’informazione e la capacità di mobilitare e di influenzare i cittadini. Le informazioni su internet scorrono attraverso Google, i grandi media (lo abbiamo visto di recente) sono dipendenti per i loro ricavi pubblicitari dall’algoritmo di Facebook. In un’edicola di quartiere degli anni Novanta, paradossalmente, c’era più pluralismo di opinione di quanto ne può trovare oggi un utente medio su Facebook. Fino a dieci anni fa, quando internet era una miriade frammentata di siti, blog e piattaforme, una campagna di guerra alla democrazia come quella orchestrata dalla Russia non sarebbe stata possibile: gli obiettivi sarebbero stati troppi. Oggi il monopolio di due sole compagnie sull’opinione pubblica online rende tutto più facile, come ha notato sul Wall Street Journal Luther Lowe (che è vicepresidente di Yelp, e dunque ha degli interessi in gioco).

 

La democrazia si basa sulla competizione delle idee, ma il dominio di poche grandi compagnie sta trasformando internet (ergo: il posto dove oggi più che mai le idee si formano) in un luogo anti competitivo. Lo vediamo perfino in ambito tecnologico, dove le startup muoiono mangiate dai giganti: dove sono le nuove Uber e Airbnb? La Silicon Valley, luogo di nascita della disruption, massimo principio di concorrenza, è dominata oggi da pochi giganteschi conglomerati che non permettono alle nuove aziende di farsi strada. Per salvare la democrazia dalla dittatura del clic e dalle ingerenze di potenze malevole bisogna riportare la competizione in quello che era il suo tempio.

 

Di più su questi argomenti:
  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.