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E' dura uberizzare un idraulico? Appunti sull'esportazione di un disruptor

Eugenio Cau
La “fine” del modello Uber secondo il New York Times. La versione di Manjoo, il principale columnist tecnologico del New York Times: estendere al mondo intero il sistema della compagnia americana è impossibile.

Roma. Abbiamo passato gli ultimi mesi a riempirci la bocca del modello Uber. Abbiamo letto e scritto infiniti articoli, contemplato le copertine dei più grandi magazine del mondo, ascoltato i candidati alle primarie americane magnificare la “gig economy” e viaggiare con Uber Black diretti nella Silicon Valley (questo prima che la campagna si trumpizzasse, ovviamente, e l’argomento di maggiore attualità diventasse la lunghezza di indici e anulari di un certo candidato). Dopo mesi di sovraesposizione, la lezione era chiara: quello che fa Uber con le auto con autista è replicabile dappertutto, ed è il futuro. Dopo aver uberizzato i taxi, dopo che Airbnb ha cambiato il modo in cui facciamo le vacanze, sarebbe stata la volta dei fattorini, degli idraulici, dei medici, dei politici. Tutti a portata di app, tutti liberati dalle catene corporative e rinati come freelance di successo grazie al modello Uber. Poi arriva Farhad Manjoo, il principale columnist tecnologico del New York Times, uno bravo, considerato che il Times e il Wall Street Journal se lo sono contesi duramente (è passato da Slate al Journal nel 2013, poi dopo pochi mesi nel quotidiano finanziario ha ricevuto un’offerta irrifiutabile dal Times, ed è andato a sostituire il famosissimo David Pogue), e soprattutto un entusiasta tecnologico come pochi, uno che nella gig economy ci crede. Manjoo ha pubblicato la sua rubrica settimanale, “State of the art”, con una tesi che smentisce gran parte di quello che ha scritto finora: il modello Uber non funziona. Non Uber intesa come compagnia, che macina miliardi di dollari e si espande in mercati nuovi, ma l’idea che quel modello di disruption aggressiva e di vecchi servizi  rivoluzionati dall’economia digitale sia una panacea definitiva per tutti i settori. L’estensione al mondo intero del modello Uber, appunto.

 

Manjoo parte da una app specifica, Luxe, che lui stesso meno di due anni fa aveva definito con entusiasmo la prossima “big thing”. Luxe, attiva solo in America, ha i parcheggiatori al posto degli autisti, ma si ispira grandemente alla compagnia fondata da Travis Kalanick. Anziché trasportare il cliente da un posto all’altro, un esercito di freelance sempre a portata di app parcheggia le automobili degli utenti frettolosi per una somma modica. Quando è nata, scrive Manjoo, Luxe era più comoda e più economica di qualsiasi altro modo di parcheggiare (in America il valet parking è costoso): le caratteristiche perfette della gig economy. Nel giro di pochi mesi, però, i prezzi sono saliti alle stelle, la comodità è peggiorata e l’affidabilità del servizio è scaduta. E’ un destino comune a molte app di questo tipo, alcune delle quali chiudono e da cui gli investitori si stanno allontanando.

 

Il successo eccezionale di Uber, spiega Manjoo, è dovuto ad alcune caratteristiche irripetibili. La società mirava a un mercato dominato, scrive, da un “racket customer-unfriendly che gonfiava artificialmente i prezzi e non si curava del servizio ai clienti” (così definisce i tassisti). Questo mercato, inoltre, riguardava un settore fondamentale per la vita delle persone, quello dei trasporti. Ma quanti altri mercati godono di condizioni così eccezionali? E’ possibile uberizzare un idraulico o una pizzeria? Certo, sperare che interi settori dell’economia diventino come la app californiana è ingenuo, e l’idea che “there’s an Uber for everything”, come scriveva il Wall Street Journal un anno fa, è prematura. Ma lo è ugualmente dare per fallito un modello di innovazione che vive sì di assestamenti e ripartenze, ma che continua a ottenere successi. Per Manjoo il paradigma della disruption secondo Uber è stato replicato malamente, e questo ha portato alla fine prematura del “sogno dell’on-demand”. Forse Uber può non essere il modello ideale per scrivere un business plan, ma lo è sicuramente in quanto a duttilità, sfruttamento ottimale delle condizioni date, e soprattutto capacità creativa di innovare. Non c’è un Uber per ogni settore perché non c’è un Travis Kalanick in ogni azienda. Ma anche gli idraulici troveranno il loro disruptor.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.