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Il pirata del surf

Michele Masneri

Funerale di popolo nell’oceano per Jack O’Neill, inventore della muta moderna. Un mito californiano nella città più hippy d’America

Santa Cruz. Vi faccio vedere come muore un surfista. Tutto è pronto a Santa Cruz, gloriosa capitalina sabbiosa del surf, cento chilometri a sud di San Francisco, una domenica mattina, per il funerale della sua massima autorità morale. Funerale acquatico, perché Jack O’Neill, inventore della moderna muta, paladino del surf moderno, fondatore dell’omonimo impero, è morto il due giugno e oggi la città riconoscente lo celebra. Con protocollo idrico anche complesso. Alle undici in punto infatti ecco un elicottero della guardia costiera far due giri su Pleasure Point, la spiaggia che O’Neill aveva scelto come sua preferita, dove ha costruito la sua dimora e dove oggi siamo in migliaia ad assistere.

East Cliff Drive, la passeggiata panoramica, è bloccata al traffico: “E’ la prima volta che la chiudono da quando ho memoria”, dice al Foglio Mike, roccioso signore surfista come tutti qui, sui sessant’anni. Folla enorme, c’è chi dice sette, chi dice diecimila persone: a intasare la via, mentre almeno in tremila si buttano in acqua per fare questo “paddle out” che verrebbe da tradurre pedalata, cioè stesi sulla propria tavola si rema con le mani, fino a formare un grande cerchio, al largo. Cerimonia funebre da surfisti, in questo caso funerale di stato attorno al catamarano del Fondatore, che sta lì in mezzo. “E’ chiaramente il più grande paddle out della storia” esulta un portavoce dell’azienda O’Neill. Il Guinness dei primati fa sapere che non è stato richiesto di inserire l’evento nella sua classifica, ma farà un’analisi, vedrà, valuterà. Di sicuro però il paddle out di O’Neill è più grosso di quello di un mese fa a Huntington Beach, California del sud, con cui c’è una antica rivalità surfistica, perché quest’ultima vanta il marchio registrato di “United States Surf City”, che qui si considera usurpato.

Dinamiche da questura-organizzatori: è chiaro però che il clou è qui a Santa Cruz: la funzione è prevista per le undici, e fa ancora freddo e c’è ancora foschia, e dunque si capisce come a un certo punto Jack O’Neill ebbe questa idea di inventare un vestito per sopravvivere in acqua a queste temperature micidiali. Nel 1952 infatti inventò la moderna muta, e trasformò proprio la California del nord, prima proibitiva, in luogo di surfate non più stagionali ma perenni. Intere parti del globo divennero praticabili: così diventò eroe civile per il popolo globale dei surfisti. Soprannominato il pirata, The Legend, “rubber baron”, il barone gomma.

 

Che personaggio: sarebbe un protagonista perfetto per un film di Wes Anderson se il regista del manierismo hipster non avesse già sfruttato il filone con le avventure di Steve Zissou, cioè poi Jacques Cousteau. Però questo O’Neill pare una degna variante californiana, barbuto, addirittura con occhio bendato da pirata. E del resto Cousteau era notoriamente infelice della sua muta tutta di spugna, e nel 1952 in un articolo su National Geographic descrisse la sua mise detta “il Tarzan”, come una “tunica da mezza stagione”. Era ancora l’era glaciale dei surfisti, ci si mettevano dei bermudoni con dei pannoloni per proteggere soprattutto “lì”: forse funzionava in mari meno gelidi di qui, in California del nord dove l’acqua può andare vicina allo zero, soprattutto d’estate. Altre sperimentazioni: strati di Pvc, ma assorbiva acqua, e si andava a fondo. Ognuno si arrangiava: un’altra pioniera, Betty van Dyke, era nota per buttarsi in acqua qui a Santa Cruz con una muta di sua invenzione, un abitino tutto di cashmere. Chic ma non molto isolante.

  

Con O’Neill, nel 1952 fatale, cambiò tutto. Lavorando in una compagnia di costruzioni nautiche, si imbatté nel neoprene, materiale sottile e resistente all’acqua, cucendo insieme dei pezzetti con la Singer della moglie. Fu il successo commerciale, nulla sarà più come prima; “volevo solo poter surfare più a lungo”, dirà mille volte nelle interviste, richiesto di come gli venne l’ispirazione. Dopo un anno, e l’apertura del primo negozio, prima a San Francisco e poi a Santa Cruz, gli dissero: e adesso che tutti e cinque i surfisti di San Francisco hanno la tua muta cosa pensi di fare? “Quello che non capite”, disse, “è che non ci sono solo loro”. Fu l’inizio di tutto, del più grande impero della muta; canoisti, tuffatori, sciatori d’acqua, sub, tutti con la loro tuta acquatica.

Però i surfisti son rimasti la tribù d’elezione: eccoli i tremila che ora si dirigono al largo, piatti piatti, con un ramo d’orchidea bianca in bocca. Formano il grande cerchio. Sulla spiaggia quattro marines lasciano andare dodici colpi di fucile a salve. In mezzo al cerchio – tutti in muta – c’è la barca della famiglia O’Neill, e il catamarano Odissey in cui O’Neill dava gratis lezioni di marineria ai bambini di Santa Cruz (grande ambientalista, grande pilastro della comunità, O’Neill). Dal catamarano si susseguono una serie di eulogie, tra cui quella dell’ex campione del mondo di surf Shaun Tomson, che rimbalza negli altoparlanti. “Un grande imprenditore! Un americano vero!”. La bandiera americana viene ripiegata in quattro e consegnata nelle mani del figlio, Pat O’Neill. Ceneri sbarcate in acqua. Parte una danza hawaiana di quattro signorine, perché “il surf fu inventato qui a Santa Cruz quando arrivarono i principi hawaiani”, ci dice un presente. Quali principi, di grazia? “Erano tre principi che nel 1885 introdussero per la prima volta le tavole lunghe, le o’lo, riservate all’aristocrazia hawaiana”, poi i principi tornarono nelle loro Hawaii ma il morbo era ormai diffuso.

  

Intanto risuona una cornamusa irlandese, in onore delle origini familiari. Arriva dalla casa del fondatore, casona sulla scogliera, tutta di legno verde, con grandi balconi, e su uno di questi una sedia a sdraio girata, dà le spalle al mare, come il tronetto nelle famiglie papali romane, quando il Santo Padre non è in casa. “Gli ultimi tempi stava sempre seduto lì”, ci dice Virginia, austriaca, fotografa, rotolata qua secondo la solita massima della California come piano inclinato dove tutti a un certo punto slittano.

Pure lo stesso O’Neill: nato in Colorado e poi rotolato in California sviluppando la passione per il surf. Aveva studiato economia a Portland, Oregon, dove si era ulteriormente ibernato gli arti tentando di surfare le onde del Pacifico. Poi nella Seconda guerra mondiale era stato pilota d’aeronautica. Coetaneo dell’ultimo beat in circolazione da queste parti, Lawrence Ferlinghetti, un altro che aveva messo la passione al servizio del business, inventando tra vari poemi il paperback (ma con fatturati minori). E ancora, appassionato di zen, guidatore di Jaguar, venditore, vasto progenitore con due mogli e infiniti nipoti, magnifico character letterario, “come ogni grande americano ha creato un business e ha messo il nome della sua famiglia sopra”, dice seria la voce in un documentario aziendale fatto uscire nei giorni scorsi.

  

Finite le danze hawaiane, mentre finalmente si alza il sole, ecco finalmente visibili sul cancello di casa O’Neill candele e fiori e ex voto e fotografie, proprio accanto all’angolo con “deposito infradito trovate e perse”, fondamentale su queste spiagge. “You made Santa Cruz proud!” recita una scritta su un foglietto, con un lumino. Disegni di bambini con palme, una minuscola muta consunta e un bigliettino a mano, “grazie per averci tenuto al caldo!”. Corone di fiori, havaiane e no; un Jack di picche: “Possa la tua onda essere la più grande di sempre!”, una foto di due cani, spelacchiati, e “grazie Jack, firmato i cani di Dirty Farm Dogs”. Dirty farm è la spiaggia dall’altra parte della casa, e lì tre soggettoni sui cinquant’anni si stanno facendo una canna, andiamo a parlarci. “Certo che Jack era uno dei nostri” dice Mike, il più sobrio; “vuoi sapere come si è cavato l’occhio? Se l’è cavato quando ha inventato il leash”. Cioè? “Ma come, il legaccio che tiene legato il surf alla caviglia” dice questo Mike molto deluso dalla nostra inesperienza. “Stava facendo esperimenti con dei tubicini chirurgici” (un altro meno sobrio: ah, italiano? Io son stato a Sigonella! E continua a ripetere Sigonella! Sigonella! Sigonella fumandosi un cannone gigantesco). Poi Mike mi dice di andarlo a trovare nella sua casa galleggiante di San Francisco. Certamente.

  

Nell’estetica piratesca di O’Neill, comunque, subito l’occhio bendato diventa parte del personaggio e finisce pure nel brand. Considerato un pioniere della pubblicità, O’Neill era famoso per mettere i suoi incolpevoli bambini in tinozze ripiene di ghiaccio, nelle fiere commerciali, agli albori dell’azienda, per mostrare le qualità delle sue mute. Una signora sottolinea come la casa O’Neill sia l’unica sulla spiaggia, insinuando forse abusi edilizi o di potere, però non insiste, perché in fondo “Jack è sempre Jack”.

 

E lì, mentre la cerimonia è finita, camminiamo sulla passeggiata verso il centro città. Mentre comincia a scendere la micidiale brezza della sera, piccole targhe come nelle nostre cittadine italiane indicano musei secolari e patrimoni Unesco, qui ribadiscono “è stata inventata la muta commerciale”; su un’altra spiaggia i ragazzi di Odissey (la no-profit di O’Neill) hanno disegnato, enorme, il marchio aziendale nella sabbia; poi siepi di oleandri, pick up parcheggiati, del tipo lussuoso, garage aperti con dentro frigoriferi a due ante, una Pleasure Pizza, bandiere americane, il rombo di macchine truccate nella domenica sera triste, come nella provincia italiana e ovunque. Molto jogging e papà surfisti che son stati al paddle out e adesso corrono con dei bambini biondi e bellissimi che a cinque anni hanno già la tartaruga, e non si capisce se nascono proprio così, per una mutazione ormai genetica.

 

Sfila tutto il distretto del surf: negozi Billabong, Rip Curl, e poi “B”, con mute tipo abiti da sera con finiture-gioiello, e comunque bitorzolute (e forse si ha un’intuizione, che la muta è sagomata, non si è mai visto del resto un surfista in muta mingherlino, dunque forse la trovata è anche in una specie di push-up muscolare da uomo). Si capisce comunque come mai è stato tanto amato, qui: basta vedere l’indotto. “Devi capire che il californiano si appassiona col cuore ma anche sempre con l’idea della start-up, del business” dice al Foglio Iris Irina Silva, romana-californiana già residente di Santa Cruz: e poi il consueto give back, “anche mio figlio è stato sulla Odissey, come tutti quelli di Santa Cruz. Se sei stato bambino a Santa Cruz non puoi non essere stato sulla barca di Jack”. Però proseguendo: negozi di rifacimenti per unghie, osteopati per chi evidentemente prende colpi della strega, “Terapia cranio sacrale!” annuncia un cartello allegro con palme. Andiamo verso il negozio O’Neill. “Quale?” ci chiede una signora che mangia a un cinese nella cena delle sei del pomeriggio. Abbiamo chiesto indicazioni per il negozio O’Neill, ma ce ne sono naturalmente diversi.

 

Il principale è un edificio a due piani, angolare, di mattoni rossi, forse finti, ovviamente un’intera vetrina è occupata dalla foto del fondatore con il suo occhio bendato e la scritta 1923-2017, “The legend never dies”, e poi “orario continuato, dalle 8 alle 8”, e pure oggi non si tiene mica chiuso. Al piano terra, calze e bermuda e magliette e bikini ma bisogna salire al primo per trovare il vero regno di The Legend: già sulla scala, ecco esposta, tipo sacra sindone, in una teca di plexiglass, il primo esperimento di muta, un giacchetto senza maniche, marrone, con didascalia museale; poi foto d’epoca di lui con una strana muta gonfia, che pare un pallone aerostatico; e pubblicità vintage, un lui e una lei con le loro mute su uno scoglio, tipo primavera-estate; e un’altra pubblicità ammiccante con una lei in topless e il claim furbo della casa: “It’s always warm in the inside”, dentro fa sempre caldo (estetiche tipo Fausto Papetti). Ci sono mute di tutte le fogge e per tutti i gusti, ce le mostra Steven, commesso con dei polipi tatuati sulle braccia, seconda generazione di impiegati a O’Neill (“io non l’ho mai visto qui, stava poco bene da tempo, aveva avuto un infarto anni fa, era in sedia a rotelle, ma mio papà ha lavorato con lui, è un mito”); mentre entrano ragazzotti scalzi a provarsene delle nuove, han tutti degli slang incomprensibili e fanno saluti codificati con le mani, sgocciolano dappertutto. Il prezzo medio è sui trecento dollari, poi c’è questa che è il modello top, viene cinquecento e misteriosamente si chiama Psycho, ha delle cuciture sofisticate e “termosaldature esterne”, è praticamente lo smoking della muta, la muta da sera. Ci sono dei pieghevoli sul programma “trade-in”, per dare dentro la muta e averne una nuova a prezzi scontati.

  

Andiamo in centro: sull’Uber che ci porta downtown Santa Cruz. Sessantamila abitanti, la cittadina più hippy d’America. Surf culture ma anche una università che attira creativi da tutto il paese, uno storico problema di droga; Jonathan Franzen si nasconde qui su tra le colline. Un’aria fricchettona ma non spensierata in giro. Anche lei fa surf? “Non hai capito, sono di qui”, dice perentorio l’uberista con camicia a fiori. E’ chiaro che essere di Santa Cruz e non fare surf è inconcepibile. Una libreria vicina alla stazione dei pullman, enorme, bellissima, ha libri di qualunque disciplina, compreso allevamento di bassotti e manualistica per auto, divisa per annata e marche (tipo: “Toyota Celica”), ma proprio nessun volume sul surf. Dev’essere il rifiuto, come con la caccia a Brescia). Però a quest’ora la città è ormai invasa dalla foschia e dal gelo, soprattutto andando sul lunghissimo molo o wharf, tipo pontile di Forte dei marmi, però intriso dall’umidità e dalla nebbia. Ci sono ragazzi in macchina che bevono, col riscaldamento acceso, e pare novembre anche se è luglio. E pile di surf accatastati in rastrelliere: pronti per domani, quando il sole sorgerà di nuovo. Intanto, “fa sempre caldo, dentro”.

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