Felice Gimondi sulla salita che porta al Rifugio Auronzo sotto le Tre Cime di Lavaredo

Felice Gimondi e la tappa scomparsa: meno 51 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Nel Giro d'Italia del 1967 il corridore bergamasco è il primo a vincere sulle Tre Cime di Lavaredo. Prima della decisione beffa della giuria

Tre dita a indicare il cielo, ferme lì quasi fossero un miraggio; tre pinnacoli di dolomia che interrompono l’azzurro, che perforano le nuvole; tre apparizioni come fosse la cima del Golgota. Perché un calvario lo è, non sacro, ma ciclistico. Tre macchie grigie e rosa che si riflettono nel celeste del lago di Misurina, opposte al Sorapiss, quasi fosse un concorso di bellezza. Tre Cime di Lavaredo. Un incanto che è meraviglia, che è sofferenza e sofferenza bestiale. Non salita, scalata. Non sofferenza, agonia. Da Misurina si parte, sette chilometri, uno strappetto all’inizio, poi discesa, pianura, l’inferno. La strada si inerpica, si arrampica, diventa un muro, passa dai 1.856 metri ai 2.304 in poco più che tre chilometri: piega le schiene, divora i polpacci, svuota i polmoni. Lo fa ora che la strada è asfaltata e i rapporti da spingere sono molti, figuriamoci un tempo, quando la ghiaia si alternava al cemento e il cambio alleggeriva di poco l’incedere. Figuriamoci nel 1967, l’8 giugno, con la pioggia che da Udine all’imbocco della salita colpì la schiena dei corridori, prima di essere sostituita dalla neve.


Foto di Jon Shave via Flickr


Vincenzo Torriani l’aveva scoperta dieci anni prima che era una mulattiera. L’avevano costruita gli alpini durante la Grande guerra, doveva servire a portare munizioni, ormai si era trasformata in terreno per transumanze. Poi arrivò l’anniversario dei cinquant’anni, i soldi dal ministero, infine il Giro. 

Quel giorno Wladimiro Panizza era avanguardista. Primo esploratore a constatare quanto fossero vere le leggende che erano circolate attorno a quell’arrivo in salita. Miro saliva a stento, imprecava contro la sorte, perché solo un destino infame poteva aggiungere fango alla fatica. Salì da solo, lontano da tutti, perché tutti erano quasi intimoriti a vederne la sofferenza. Il freddo era pungente, la grappa serviva a riscaldare il corpo. E anche l’animo. Dietro a Panizza, Felice Gimondi decise che era quello il momento di levarsi di dosso il bel volto di Jacques Anquetil, la sua eleganza, il suo savoir-faire da francese di mondo, mentre lui era solo un bergamasco delle valli. E così Felice Gimondi fece quello che gli riusciva meglio, accelerò, pestò duro sui pedali, provò il volo. Dietro di lui si levarono tutti di ruota, poi ritornarono sospinti dalle braccia vigorose e alcoliche dei tifosi. Era una lotta impari. Lui contro la salita, contro tutti e tutti per giunta aiutati. Decise che se la prassi era questa allora non era peccato usufruirne. Qualche spinta la ricevette. Qualche aiuto arrivò. Sotto il traguardo passò primo senza neppure la forza di alzare le mani. 

 

Peccato che fosse tutto vano. Come la Maglia Rosa che aveva addosso. 

 

Tutto annullato. Decisione insindacabile della Giuria di corsa. Troppe spinte, troppe irregolarità. Gimondi protestò, minacciò il ritiro. Lui sì aveva ricevuto spinte, ma mica si era appeso alle macchine come tanti. Torriani fu categorico. E anche la Salvarani, la squadra di cui indossava la divisa: tu resti e vinci il Giro. 

L’indomani ancora freddo e ancora salite: Falzarego, Pordoi, Rolle, Brocon, partenza da Cortina e arrivo a Trento e 220 chilometri da percorrere. Gimondi ci provò in ogni modo, ma Anquetil era determinato e non si staccava. Poi un piccolo cedimento sul Brocon, ma dalla cima all’arrivo i chilometri erano tanti e i secondi guadagnati pochi. “Beh c’è ancora lo Stelvio, poco male”, pensò Gimondi. Ma lo Stelvio fu chiuso per neve e sostituito da Tonale e Aprica, non certo due salite impossibili.

 

Sembrava tutto perduto. Ma Felice era una testa dura, veniva dalle valli bergamasche, mica dalla Francia. E così attaccò sul Tonale. La sua squadra fece un ritmo folle, il gruppo si disintegrò, una buona parte si perse per strada e salì in ammiraglia. Poi toccò a lui. Scattò, piegò tutti, ma non lui, il francese, Jacques Anquetil, che in discesa rientrò. Gimondi capì che la forza non bastava, serviva l’arguzia. E così quando il campione transalpino si fermò al rifornimento, lui tirò dritto. Divenne una prova di inseguimento, un uno contro uno. Felice era un missile, e qualche scia gli diede una mano. Anquetil un po’ meno e nessuno gli diede una mano. Ai piedi dell’Aprica Anquetil era quaranta secondi indietro. La salita è giudice però e qui le scie non ci sono: Gimondi furia, Anquetil resa. All’arrivo quasi prese gli avanguardisti del mattino, fu quarto a un minuto e mezzo da Marcello Mugnaini, ma quattro minuti prima di Jacques Anquetil. Fu in quel momento che si rese conto di aver conquistato il suo primo Giro d’Italia.

Vincitore: Felice Gimondi in 101 ore, 5 minuti e 34 secondi;

secondo classificato: Franco Balmamion a 3 minuti e 36 secondi; terzo classificato: Jacques Anquetil a 3 minuti e 45 secondi;

chilometri percorsi: 3.572.