"L'allergia" di Raggi alla democrazia diretta. Quella dei referendum

Valerio Valentini

Dopo le mancate consultazioni popolari su Olimpiadi e stadio, anche il caso Atac dimostra che oggi i grillini si sentono minacciati da quella che un tempo consideravano “un'arma meravigliosa”

E dunque, per la terza volta in poco più di un anno, Virginia Raggi ha dato avvio all'“osceno balletto”. Che no, non è la riedizione della danza un po' goffa in cui la sindaca di Roma si esibì, per la gioia dei suoi seguaci urlanti, nel settembre 2016, al suo arrivo a Palermo per la kermesse grillina di “Italia a 5 Stelle”. No, l'“osceno balletto” è quello che la prima cittadina romana sta lanciando “per depotenziare” l'ennesimo referendum che potrebbe celebrare e non vuole, sentendosi minacciata da questo prezioso strumento di democrazia diretta. Nella fattispecie, la consultazione popolare è quella proposta dai Radicali per la privatizzazione di Atac, la municipalizzata capitolina della mobilità ormai al collasso finanziario. La Raggi è contraria a “svendere l'azienda”, ché per lei mettere a gara, in modo trasparente e competitivo, il servizio dei trasporti, questo significa. Meglio, secondo la giunta grillina, percorrere la strada del concordato preventivo, così da lasciare Atac “nelle mani dei cittadini”. Come se poi esistessero davvero, queste folle di romani smaniosi di restare teoretici possessori di un carrozzone allo sbando.

 

  

Il merito della questione Atac, e delle possibili soluzioni per rivitalizzarla, però, qui conta meno. La questione, semmai, è politica. Questione di coerenza, per l'esattezza: quella di cui i grillini hanno fatto una bandiera da sventolare in faccia ai vecchi politici, che in campagna elettorale dicevano una cosa e poi, arrivati al governo, ne facevano un'altra.

  

 

Ecco, c'è stato un tempo in cui il referendum era “un'arma meravigliosa”. Di più: “un'arma straordinaria, un'arma strategica in mano ai cittadini”. Tanto che non doveva restare come la Costituzione stabilisce che sia, ma doveva diventare anche “propositivo”, e ovviamente “senza quorum”, perché “chi non vota conta zero”. Una priorità “assoluta”, la sua introduzione nell'ordinamento italiano, troppo a lungo osteggiata dalla solita vecchia politica. Così parlava Beppe Grillo, in diretta dal suo camper durante il tour elettorale per le amministrative. Era l'aprile del 2012. Erano altri tempi.

 

 

 

E non era certo la prima volta che il comico genovese invocava la necessità del ricorso costante alla consultazione popolare, “cosicché siamo noi che decidiamo”, e non amministratori e burocrati rinchiusi nel Palazzo, “se fare un inceneritore o la raccolta differenziata, se fare un parco giochi o un supermercato, se fare un'autostrada o un asilo nido”.

  

 

L'esaltazione del referendum come strumento di governo sta alla base del futuristico programma dei Cinquestelle sin dall'esordio politico di Grillo e Casaleggio, già da prima della fondazione del Movimento. Se ne parlava in termini entusiastici dal palco del primo V-day, a Bologna: esattamente 10 anni fa. E ancor più, e sempre più, se ne se sarebbe parlato in seguito, quando sarebbe risultato evidente che l'altro “spiraglio di democrazia”, l'altro “lumino sempre più fioco di partecipazione”, quello della legge d'iniziativa popolare, non funzionava, perché troppo facilmente la politica poteva aggirarlo: bastava uno Schifani qualunque che, da presidente del Senato, anziché costringere Palazzo Madama a discutere quelle proposte, preferisse chiudere in un cassetto 350mila firme, o magari “usarle per pulircisi il culo”, con buona pace dei cittadini che avevano fatto la fila ai banchetti, mostrato i documenti d'identità e compilato i moduli. E così, a partire dal giugno 2011, l'asso nella manica dei grillini doveva essere un altro. Lo sanciva il blog: “Il referendum”. Perché il referendum, “quando supera le barriere della disinformazione durante la raccolta di firme e il giudizio della Corte Costituzionale e viene finalmente messo in calendario, diventa allora una pistola caricata contro la partitocrazia che inizia subito l'osceno balletto per depotenziarlo”. Bene, bravo, bis.

 

Poi però succede che gli anni passano, i tempi cambiano, e i Cinque stelle arrivano al Campidoglio. E ce l'avrebbero, eccome, la possibilità di utilizzare, perfino abusandone, quello strumento eccezionale che è il referendum. Non propositivo, ovvio, non senza quorum: per quello ci servirebbe una riforma della Costituzione e figurarsi se la vecchia politica accetterà mai di modificare la Carta. Però almeno ci si potrebbe accontentare di quel che c'è, e indire consultazioni popolari nella Capitale per far sì che siano i romani a decidere del destino della loro città. E così finalmente dimostrare agli scettici che davvero quelli grillini non sono dei semplici eletti, ma dei “cittadini portavoce” che entrano nelle istituzioni solo per fare le cose che il popolo dice loro di fare. Meri esecutori, insomma: soprattutto per quanto riguarda le questioni più delicate. Tipo le Olimpiadi, ad esempio. Farle? Non farle? Sembra quasi un caso di scuola. Vedrai che ora la giunta Raggi lo indice, questo referendum, e dimostra che davvero al Campidoglio “il vento sta cambiando”. C'è perfino una proposta concreta, quella dei Radicali. C'è perfino il Pd che, magari per stanare la sindaca e vedere se fa sul serio, si dice d'accordo all'ipotesi. C'è – anzi: c'era – addirittura la Raggi che in campagna elettorale giurava: “Se dovessi diventare sindaco, sarò io stessa a indire un referendum consultivo”. È fatta, insomma: il referendum si farà. E invece no. Da Milano arriva il contrordine. Niente Olimpiadi, i romani se ne faranno una ragione.

   

    

Così come capiranno che pure sullo stadio della Roma a Tor di Valle, una chiamata alle urne per conoscere la loro opinione non è cosa, non è fattibile. Nonostante a un certo anche il padre nobile, il giudice Ferdinando Imposimato suggerisca quella soluzione. Nonostante a un certo punto – è il febbraio scorso – lo stesso Grillo arrivi a prospettare la possibilità di “sentire la popolazione interessata dal progetto”. Un referendum, quindi? Come, sennò? Niente da fare. Meglio affidarsi alla capacità di mediazione di Luca Lanzalone, avvocato genovese inviato a Roma a trattare con l'As Roma e i biechi palazzinari al seguito, prima di essere promosso alla presidenza di Acea, la multiulity dell'acqua e dell'elettricità.

  

L'altro referendum che potrebbe celebrarsi, ora, è quello sulla privatizzazione dell'Atac promosso dai soliti Radicali, che hanno già raccolto 33mila firme – nonostante intimidazioni varie e assalti ai banchetti messi in atto da dipendenti della municipalizzata e sigle sindacali annesse – e aspettano solo di scoprire quando la consultazione potrà avvenire (verosimilmente nella primavera 2018). Ma la Raggi non sembra affatto entusiasta. Anzi, durante il consiglio comunale straordinario convocato proprio per discutere la questione Atac, giovedì, ha ribadito che alternative al concordato preventivo non sono neppure contemplate. In aula Giulio Cesare c'era anche Riccardo Magi, segretario dei Radicali e promotore della campagna “Mobilitiamo Roma”. Ha ascoltato per un po' il discorso della sindaca e poi ha gridato: “Fate votare i cittadini, fate dire a loro come vogliono risolvere questa situazione”. Qualche anno fa sarebbe stato iscritto d'ufficio al Movimento, l'altro giorno è stato accompagnato all'uscita dai vigili. Fuori dal Campidoglio, è stato accerchiato da un manipolo di romani – dipendenti Atac e non – che lo insultavano chiedendogli a chi è che voglia regalare Atac. Tra i loro volti, se ne riconosceva qualcuno molto simile – ma proprio molto – a quelli che l'anno scorso, a Palermo, sorridevano e cantavano entusiasti davanti alla danza di Virginia Raggi. Ieri e oggi, ad applaudire l'“osceno balletto”.