Salvatore Torrisi con Paolo Romani (foto LaPresse)

Affari Scostituzionali

Che cosa c'è dietro alla rocambolesca elezione di Torrisi in commissione

David Allegranti

Il neopresidente è stato espulso dal partito di Alfano. Renzi un po' s'arrabbia e un po' ne approfitta. La spaccatura di Forza Italia

Roma. Forza Italia spaccata, il Pd che non controlla le sue truppe, Ap che elegge un presidente di commissione all’insaputa – ma forse tanta ingenuità è un bluff – del suo leader, Angelino Alfano. La commissione Affari costituzionali al Senato, congelata dopo la sconfitta al referendum e tornata al centro delle cronache politiche con l’elezione di Salvatore Torrisi, è la rappresentazione del caos che c’è nella maggioranza ma anche in un pezzo dell’opposizione. Ma come si è arrivati al cortocircuito di mercoledì, con l’elezione a presidente della commissione di Torrisi, senatore di Ap, siciliano come Alfano e cacciato ieri dal suo partito per non essersi dimesso (la prima volta che Alfano, dal 2013 in cerca di poltrone, ne vuole restituire una)? Procediamo con ordine. Dopo la nomina a ministro per i Rapporti con il Parlamento di Anna Finocchiaro, la commissione è rimasta senza presidente per mesi. A farne le veci sono stati i due vicepresidenti: uno di Forza Italia, Claudio Fazzone, che però non si fa mai vedere, l’altro è il famoso Torrisi. Il quale per settimane ha fatto campagna elettorale, “sempre puntuale, sempre cortese, sempre disponibile”, dice un senatore. A un certo punto, i parlamentari decidono che non si può più stare senza presidente e fissano una riunione per eleggerne uno nuovo. E mentre Torrisi porta avanti la sua campagna elettorale, Luigi Zanda, presidente dei senatori del Pd, e Paolo Romani, presidente dei senatori di Forza Italia, in virtù del mini-patto del Nazareno sulla legge elettorale, si adoperano per far saltare la candidatura del senatore di Ap. Tant’è che una riunione, fissata la settimana scorsa (ore 14,30 di mercoledì 29 marzo) viene fatta rinviare con una banale scusa.

 

Mario Ferrara, presidente di Gal al Senato, chiede il rinvio, “in attesa della rideterminazione dei componenti la commissione e anche di intesa con i presidenti Zanda e Romani”. La riunione viene dunque aggiornata al 5 aprile. Sia il Pd che Forza Italia però hanno diversi problemi da gestire. La capogruppo del partito di Berlusconi in commissione, Anna Maria Bernini, vuole far votare Torrisi. Romani, invece, in virtù del mini-Nazareno con Zanda, vuol disinnescare la sua elezione. Zanda traccheggia, prende tempo, il Pd è indeciso su tre candidature: in campo ci sono il renzianissimo Roberto Cociancich, il franceschiniano Franco Mirabelli e Giorgio Pagliari. Alla fine la scelta ricade sul terzo, ma a Zanda – novello Churchill – il gioco scappa di mano. Ci mette anche del suo. In Senato, negli ultimi giorni, hanno sentito dire al capogruppo del Pd che tutto sommato l’elezione di Torrisi non sarebbe stata così male. Risultato: il 5 aprile Torrisi viene eletto con 16 voti su 30, contro gli 11 di Pagliari. A favore del senatore di Ap dovrebbero aver votato anche i bersaniani ex Pd, che però smentiscono. Vero è, tuttavia, che nei giorni precedenti il voto, Maurizio Migliavacca, storico braccio destro di Bersani e membro della commissione, era stato particolarmente attivo nella ricerca di consensi per Torrisi. Non solo: probabilmente anche due senatori del Pd hanno votato contro il proprio candidato. E Matteo Renzi? Un po’ si arrabbia e un po’ coglie l’occasione per prendersela con gli avversari (e pure con gli alleati). Non chiede le dimissioni di Torrisi, ma lascia che sia Alfano a farlo. Il neo-presidente risponde picche e resta al suo posto, giudicando “inconcepibile” la richiesta. “Manco nel Pcus”. “Il fronte del No che da ieri è maggioranza in commissione Affari – dice Renzi riunendo i suoi parlamentari al Nazareno – dovrà farci delle proposte”, ma “dell’elezione del presidente della commissione Affari costituzionali interessa poco agli italiani. Non voglio sottovalutare quello che è un atto di scorrettezza istituzionale e politica, tipico della Prima Repubblica. La vicenda della prima commissione è grave e avrà conseguenze”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.