Carlo Nordio è nato a Treviso il 6 febbraio del 1947 ed è magistrato dal 1977 (foto LaPresse)

"Non capisco i magistrati che simpatizzano per il M5s"

Ermes Antonucci

Carlo Nordio va in pensione e ci racconta tutto su gogne mediatiche, intercettazioni e giustizia ingiusta. Dalle Brigate rosse a Tangentopoli, passando per il Mose. Un pm può essere garantista? Sì

Ha indossato la toga per quarant’anni, preferendo il lavoro sodo ai trampolini mediatici, la professionalità alle scorciatoie corporative, la sincerità intellettuale alle comodità del politicamente corretto. Oggi, spente da poche ore le candeline dei settant’anni, Carlo Nordio, celebre procuratore aggiunto di Venezia, va in pensione, complice la riforma voluta nel 2014 dal governo Renzi che ha abbassato l’età pensionabile delle toghe da 75 a 70 anni. In un lungo colloquio con il Foglio, il magistrato veneto racconta le sue sensazioni sull’addio, analizzando i mali della giustizia italiana e ripercorrendo le principali tappe della sua prestigiosa carriera, a partire proprio dalla scelta di rimanere per tutti questi anni procuratore aggiunto. Scelta curiosa in un panorama togato particolarmente attento alle promozioni di carriera, ma anche qui c’entra il tradizionale spirito controcorrente del magistrato veneto: “Credo di essere il magistrato che è stato per più tempo nello stesso ufficio – spiega Nordio – Non mi sono mai interessato a posti direttivi, perché fare il capo significa fare alta amministrazione del proprio ufficio a discapito delle indagini. La posizione ideale, invece, è quella del procuratore aggiunto, perché non hai lo stress della primissima linea, ma continui a fare indagini o quantomeno a coordinarle. Non ho neanche mai guardato i bollettini dei posti per cui candidarsi, perché non mi interessava”.

 

Tante le indagini importanti condotte da Nordio, a partire da quelle compiute negli anni Ottanta sulle Brigate Rosse venete e sui sequestri di persona: “Quello è stato senza dubbio il periodo più esaltante della mia carriera”, spiega Nordio al Foglio. “Non mi è mai piaciuto usare il termine ‘lotta’, perché il magistrato è chiamato solo ad applicare la legge, ma in quel momento la magistratura era così sola e aveva dato un così alto contributo di sangue che si può parlare effettivamente di lotta”. Basti ricordare che in quattro giorni, tra il 16 e il 19 marzo 1980,  caddero sotto i colpi delle Brigate Rosse le toghe Nicola Giacumbi (procuratore a Salerno), Girolamo Minervini (procuratore generale della Cassazione) e Guido Galli (giudice istruttore a Milano): “Sentivamo di avere sulle spalle l’intera nazione e di stare facendo qualcosa di estremamente utile, anche se eri solo”, racconta Nordio. “Nonostante fosse molto pericoloso, posso dire di non aver mai avuto paura, forse perché per carattere concentro tutte le mie paure sulle malattie, essendo un po’ ipocondriaco… Nel mio lavoro ho seguito tutta la colonna veneta delle Brigate Rosse, che era una delle più pericolose d’Italia, composta anche da elementi che venivano da altre città come Roma o Torino. Certamente era la più importante in termini di armi, perché quasi tutte erano state portate e sepolte nel Nord-Est. Alla fine la guerra è risultata vittoriosa. Negli anni successivi ci sono stati dei colpi di coda delle Brigate Rosse, ma questi non hanno più messo in pericolo la democrazia come era avvenuto durante il sequestro Moro”.

 

Giunsero poi gli anni Novanta. Gli anni di Tangentopoli e della maxi inchiesta veneziana sui finanziamenti illeciti da parte delle cooperative rosse a Pci e Pds. Le indagini finirono per toccare anche i segretari nazionali dei due partiti di sinistra, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, ma alla fine fu lo stesso Nordio a chiedere l’archiviazione per i due: furono raggiunte prove evidenti del finanziamento illecito ai partiti, ma non delle responsabilità penali individuali dei due segretari. Una certa sinistra non perdonò mai a Nordio di aver messo in luce l’insussistenza della propria “superiorità morale”: “Quando le indagini si concentrarono sui democristiani e sui socialisti non ci furono polemiche e fummo anche dipinti come degli eroi. Poi quando iniziai a indagare sulle cooperative rosse e sull’onorevole D’Alema sono scoppiate molte polemiche, anche con i colleghi di Milano”, spiega il pm. L’onorevole Pietro Folena (Pds) dichiarò che Nordio stava usando “metodi fascisti”, ma ci fu tensione anche con l’Associazione nazionale magistrati: “Dopo aver scritto diversi articoli e un libro sulla giustizia molto garantisti fui richiamato dai probiviri dell’Anm a rispondere delle mie idee eterodosse”, ricorda il magistrato. “Io li mandai letteralmente al diavolo, dicendo che non mi sarei presentato neanche dipinto. Di fronte a questa mia reazione poi loro non fecero nulla. La vicenda ebbe poi qualche riflesso, perché quando un paio di anni dopo fui promosso consigliere di Cassazione, nel Consiglio superiore della magistratura alcuni rappresentanti di Magistratura Democratica vollero mettere a verbale le loro riserve, unico caso tra oltre cento magistrati. Risposi che per me era un onore avere le riserve da parte di una corrente come Md”.

 

Negli ultimi anni, Nordio ha coordinato le indagini sul Mose, l’ambizioso e costoso progetto di messa in sicurezza della laguna veneziana. Anche qui un’inchiesta gigantesca, che ha finito per coinvolgere oltre cento persone, tra cui il sindaco della città Giorgio Orsoni e l’ex presidente della regione Giancarlo Galan: “Mi dispiace abbandonare ora l’inchiesta – confida Nordio al Foglio – perché avrei voluto partecipare almeno in parte alla requisitoria finale, ma comunque il processo è in ottime mani. Abbiamo concluso le indagini in tempi ragionevoli e già sono stati ottenuti importanti risultati, come moltissimi patteggiamenti, restituzioni di maltolto e irrogazione di alcune pene. Pene forse non adeguate alle aspettative forcaiole di molta opinione pubblica, ma secondo noi congrue, tenendo anche conto del rischio della prescrizione”. “Un altro grande orgoglio – prosegue il pm – è che di tante ore di intercettazioni realizzate nel corso dell’inchiesta, neanche una riga è finita sui giornali, a dimostrazione del fatto che se si vuole mantenere il segreto lo si può fare e soprattutto a conferma che le intercettazioni non possono essere concepite come strumento di prova, ma solo come mezzo di ricerca della prova, come peraltro vorrebbe il codice di procedura penale. Le intercettazioni possono essere uno stimolo alle indagini, ma quando quest’ultime sono fondate solo sulle intercettazioni, come è avvento e continua ad avvenire in molti casi in Italia, sono destinate al fallimento totale”. Ciò che preoccupa, però, è il particolare quadro corruttivo emerso dall’inchiesta sul Mose, talmente esteso da coinvolgere non solo politici e imprenditori, ma anche esponenti di organismi di controllo: “Abbiamo incriminato un generale della Guardia di finanza, magistrati contabili, alta burocrazia – spiega Nordio – Si tratta di una corruzione più capillare e più diffusa, che rispecchia anche la distribuzione del potere di oggi. Vent’anni fa il potere era diviso tra alcuni partiti e gli imprenditori, mentre oggi è molto più distribuito e coinvolge anche gli organi che hanno il potere di interdizione, cioè quello di impedire un’opera, e che devono essere ‘addolciti’ affinché l’opera vada avanti. Questa è la ragione per cui la corruzione non sarà mai vinta in Italia finché non si semplificheranno le procedure e non si elimineranno tutte le leggi inutili che abbiamo e che conferiscono a questi soggetti un potere discrezionale e arbitrario”.

 

Insomma, non piacerà agli indignati di professione e agli oracoli dell’anticorruzione, ma la verità è che per combattere la corruzione nel nostro paese non servono pene più severe, bensì una burocrazia più leggera: “Le leggi penali severe non sono mai servite a prevenire il delitto, ancora meno in Italia dove l’applicazione della pena è molto futura, incerta e platonica – ribadisce il procuratore aggiunto di Venezia – La strategia nei confronti della corruzione non deve essere quella di intimidire il potenziale corrotto, ma di disarmarlo. A me non interessa niente di mandare in galera chi si è fatto corrompere, ma mi interessa togliergli le armi con le quali si fa corrompere. E queste armi sono le leggi: più sono le porte alle quali devi bussare per avere un provvedimento, e più leggi devi invocare per ottenerlo, più è probabile che queste porte restino chiuse e che qualcuno venga a dirti che occorre oliare le serrature per aprirle”. Qual è la soluzione allora? “Il cittadino deve poter bussare a una porta sola, invocando una legge chiara. La parola d’ordine è semplificazione delle procedure e individuazione delle competenze e delle responsabilità. Sotto questo profilo ho trovato disastrosa la legge Severino, che punisce anche chi è concusso per induzione, cioè colui che è indotto con un comportamento concludente a pagare. Questa persona ha tutto l’interesse a tacere, perché se rivela che è stato indotto a pagare la mazzetta finisce a processo anche lui. In teoria non si dovrebbe punire chi dà, ma soltanto chi riceve, perché in questo modo dal punto di vista processuale il corruttore è obbligato a dire la verità, non rischia l’incriminazione”.

 

Impossibile, a questo punto, non evocare l’altra discutibile norma introdotta dalla legge Severino, cioè quella che prevede l’incandidabilità e la decadenza nei confronti di sindaci e consiglieri locali condannati anche solo in primo grado, con buona pace del principio costituzionale di presunzione di innocenza: “Peggio ancora della legge Severino – commenta Nordio – è stata l’interpretazione che ne è stata data nel caso della decadenza di Silvio Berlusconi, perché in quel momento politico l’interpretazione retroattiva della legge è stata fatta in malam partem e ad personam. La decadenza, essendo una sanzione afflittiva, non poteva essere retroattiva e invece è stata resa tale. A quel punto qualcuno ha detto che non era una norma penale, ma questa è una sciocchezza colossale perché anche le norme amministrative afflittive non possono essere retroattive”. Insomma, probabili sorprese in arrivo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

Le vicende giudiziarie che recentemente hanno travolto le giunte comunali a Roma e Milano hanno riportato all’attenzione il tema dello strapotere (soprattutto mediatico) della magistratura nei confronti della politica. Per Nordio si è di fronte alla conferma dell’incapacità della politica di assumersi la responsabilità di difendere il proprio ruolo istituzionale: “Le procure fanno il loro dovere. L’avviso di garanzia e l’iscrizione nel registro degli indagati sono atti dovuti, se poi i politici per farsi la guerra tra di loro strumentalizzano questi istituti che hanno un significato completamente diverso, questo è un affare della politica, non della magistratura. È la politica che deve dire chiaro e tondo che finché una persona non è condannata definitivamente è un presunto innocente. Noto che un po’ di garantismo adesso sta circolando anche tra i Cinque stelle, meglio tardi che mai!”. Ma a proposito dei Cinque stelle, colpisce il sostegno smodato manifestato da molti colleghi magistrati per il progetto politico dei pentastellati. Come spiegarlo? “Il Movimento 5 stelle – risponde Nordio – ha avuto e, nonostante le vicende giudiziarie, continua ad avere successo in virtù della delusione che gli italiani hanno provato nei confronti di tutti i partiti politici. Quando però si arriva alla proposta, il programma politico del M5s può essere definito con le stesse parole che Churchill usò per definire l’Unione Sovietica: ‘Un enigma dentro un indovinello, avvolto in un mistero’. Non so quale sia il programma e non l’ho capito. Meno che mai lo capisco sulla giustizia, e meno che mai comprendo le simpatie di certi miei colleghi per il Movimento. Ma poiché molti miei colleghi hanno dimostrato nel tempo simpatie per le idee più bizzarre, non mi stupisco neanche di questo”.

 

Ma torniamo alle beghe dell’amministrazione della giustizia. Uno dei temi più caldi è costituito  dalla responsabilità civile dei magistrati. Le norme sono state riformate nel 2015, ma il sistema giudiziario italiano è lungi dal conoscere un meccanismo sostanziale di valutazione degli errori delle toghe: “L’errore giudiziario è sempre in agguato perché fa parte della natura umana – afferma il pm – Il problema si pone per l’errore grave, cioè quello dovuto a mancanza di professionalità. La strada non dovrebbe essere far pagare con la responsabilità civile, perché a pagare poi è l’assicurazione, come sta avvenendo regolarmente. Il magistrato, invece, dovrebbe essere rimosso o comunque punito sulla carriera”.

 

Negli ultimi anni, il procuratore aggiunto di Venezia si è occupato di un’altra questione sempre più attuale, cioè la lotta al terrorismo islamico. Anche qui in modo controcorrente, Nordio è stato tra i pochi – forse l’unico magistrato – a parlare esplicitamente di “guerra santa”. Parole che conferma al Foglio: “Siamo in una situazione di guerra e la riluttanza ad ammetterlo deriva dal fatto che quando la verità è amara si cerca sempre di evitarla. Il fatto che a Capodanno tutte le città d’Italia siano state protette da autoblinde ha dato ragione a quello che dicevo io. Certamente si tratta di una guerra diversa da quella di settant’anni fa”. Ma il compito di combattere questa guerra, tiene a precisare il pm veneziano, non spetta alla magistratura: “In questa guerra la magistratura non c’entra niente. La guerra la deve fare la politica con le sue responsabilità politiche. La magistratura deve soltanto garantire la legalità delle operazioni antiterroristiche, perché tutto deve essere fatto nel rispetto della legge. Già trentacinque anni fa è stato fatto l’errore di devolvere alla magistratura la lotta al terrorismo, perché la politica non sapeva che pesci prendere”.

 

Insistendo sul rapporto tra politica e magistratura, in conclusione, c’è il rischio di vedere Nordio tra pochi anni candidato in qualche lista elettorale, come spesso avviene tra le ex toghe? “Ho sempre detto che il magistrato non deve fare politica neanche dopo essere andato in pensione – ribadisce Nordio – E soprattutto non devono farlo i magistrati che hanno acquistato notorietà e prestigio da inchieste che hanno colpito personaggi politicamente rilevanti. Ciò sia perché sarebbe estremamente improprio cercare di prendere il posto di coloro che si è indagati, sia perché sarebbe una concorrenza sleale verso gli altri candidati politici, perché approfitteremmo di un prestigio e di una credibilità che abbiamo acquistato facendo il nostro lavoro”. Cosa farà allora l’ex magistrato Nordio? “Con la pensione potrò dedicare interamente il mio tempo alla lettura e alla scrittura, oltre che ai miei hobby sportivi. Vorrei tanto tornare a nuotare e ad andare a cavallo”.

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