L'aggressione di ieri a Osvaldo Napoli

Chi gioca con la cultura del linciaggio

Salvatore Merlo

C’è una grammatica dell’aggressione dietro il caso Osvaldo Napoli

E la cosa più spiazzante, all’inizio, sono i carabinieri, che restano lì, di fronte alla Camera dei deputati, fermi a guardare la scena: quattro balordi che afferrano un signore piccoletto, in cappotto e capelli bianchi, che urlano “lei è un parlamentare” (in realtà è un consigliere comunale di Torino, e di minoranza per giunta), che blaterano di “codice penale”, poi afferrano il malcapitato, lo strattonano, tentano di portarselo via, e allora lui si divincola, scappa spaventato, mentre quelli lo inseguono: “Acchiappalo!”. A un certo punto uno degli uomini in divisa si rivolge a uno dei balordi: “Ma lei chi è?”. E la domanda aggiunge surrealtà alla pagliacciata violenta, cui per qualche minuto, persino Osvaldo Napoli, la vittima, il politico da linciare, s’era prestato, e con lo stesso sorriso sacrificale e instupidito con il quale mediamente i parlamentari italiani sono abituati a farsi insultare dagli inviati di “Striscia la notizia”, da quelli delle “Iene” o dell’“Arena” di Giletti, da quelli che consegnano gli agnolotti a Massimo D’Alema, ultima frontiera del giornalismo: “Sei una figa strepitosa, ma perché t’hanno messo proprio a te ai rapporti con i ‘membri’ del Parlamento?”, grugniva Enrico Lucci inseguendo Maria Elena Boschi. Ed è tutto normale.

Tutti sanno che intorno a Montecitorio girano dei mattoidi, d’ogni età, che si avvicinano ai parlamentari, e li insultano, perché l’hanno visto alla televisione, perché è così che va e si fa, perché credono di essere tutti Gabibbi o postini del popolo, dunque scambiano segnali d’imbarbarimento per veraci manifestazioni di libertà: “Tu le palle non ce le hai”, urlò qualche tempo fa una donna con cappellino rosso al povero Pippo Civati, “te ne devi anna’”. E d’altra parte è così che parlano i comici, i tribuni della satira, e anche i giornalisti, quelli che scrivono sui giornali ma poi vanno a urlare in televisione, che festeggiano la vittoria del No al referendum ballando e facendo il noto gesto del “suca”, quelli che sudaticci sotto i riflettori difendono sempre e comunque “la gente”, quelli che cacciano il microfono tra i denti del disgraziato: “Non volete andare a votare perché sennò perdete il vitalizio, eh?”, “mi risponde sì o no?”, che è sempre un incitamento a molestare.“Se vai al governo me dai ‘na mano con la Rai?”, “ma te lo sai quanto costa un chilo de pasta?”, che ovviamente non sono mai vere domande, ma inviti allo stalking, che più che un reato è una patologia contagiosa: “Mi dica esattamente quanti parlamentari ci sono alla Camera?”, “ma lei lo sa cos’è la Bce?”, “nun te vergogni de guadagna’ a sbafo?”. Un’ossessione che risveglia i dèmoni incongrui del plebeismo, dell’esasperazione per un mondo, quello della politica, che tra incuria e sentimenti inariditi forse porta in faccia i segni della morte.

E chi non si ricorda della signora Annarella, la donna del popolo divenuta eroina di Striscia, e poi della Zanzara, perché al vecchio e infermo Umberto Bossi, che stava seduto al bar Giolitti, urlò: “Tutti a Roma venite a magna’ e beve, te possino ammazzatte”? E c’è evidentemente una grammatica fuori controllo che ha liberalizzato il turpiloquio, il ricorso a parole violente, eccessive, per forzare nella direzione dello sdegno emotivo e del rifiuto morale situazioni, luoghi, comportamenti e persone, che non è più lo sberleffo spiritoso di Totò: “A proposito di politica, non è che ci sarebbe qualcosina da mangiare?”, ma è forcone, invettiva personale, compiacimento nell’eccesso, tumulto da curva sud.

Il linguaggio è importante perché alle parole, è inevitabile, poi corrispondono fatti concreti. E se il presidente della Repubblica, persino su certi giornali, diventa “la mummia”, se Bersani è “zombie”, Berlusconi “psiconano”, Fassino “salma”, Pisapia “pisapippa”, Renzi “ebetino”, allora forse tutto quadra, e tutto torna in questo massacro della civiltà dei rapporti. Ecco dunque spiegato perché i carabinieri tentennavano di fronte alla scena incredibile che gli si parava davanti agli occhi – “ma lei chi è?”– mentre Osvaldo Napoli veniva circondato e sollevato di peso. Era tutto normale. Già visto. Ed ecco perché persino lui, Napoli, mercoledì mattina, si è fermato sorridente di fronte a quei ceffi che volevano arrestarlo e fargli violenza in piazza, disposto a subire qualche insulto: era tutto parte di un codice condiviso, per quanto rancido. Normale l’invasato che declama articoli del codice penale a capocchia in mezzo alla strada, normale lo stato di sovraeccitazione scomposta, normale l’implicazione eversiva che il parlamentare sia un abusivo, normale l’aggressività di una folla contro il singolo, normali quella volgarità e quella prossemica minacciosa che evidentemente riflettono l’incattivirsi della mentalità comune, che è già metodo politico e giornalistico, cartaceo, internettiano e televisivo, febbre cosmica che si dilata, si distende, si espande, e ci appesta.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.