Matteo Renzi (foto LaPresse)

Una storia di riformatori disarcionati

Giuliano Ferrara

Gli italiani che non desiderano cambiare e i leader (Renzi, come Craxi e il Cav.) che gli danno un aiutino

Un po’ di storia non fa male. Bisogna dare un seguito argomentativo di sfondo all’idea, affacciata ieri da Cerasa qui, che Renzi si sta dimettendo da Renzi, che questo è il rischio al di là delle minuzie consultazioniste. Ecco qui. E’ assodato che gli italiani non desiderano cambiare la loro condizione, il loro sistema politico di decisione e le loro garanzie protettive in ogni campo. Dalla Prima alla Seconda Repubblica ci hanno portato non gli elettori, infatti, ma i magistrati, con la sorpresa a effetto della vittoria inaspettata di un Berlusconi, e conseguenze varie, ma senza le manette staremmo ancora col proporzionale e i partiti (quelli di un tempo, non i conati ora nascenti). Nel 1987 Craxi aveva governato per tre anni, un tempo inaudito per la media di allora che era di un governo ogni dieci mesi, e aveva agitato le acque con un notevole successo di manovra e di iniziativa: aveva posto la questione di una Grande Riforma presidenzialista, della riforma garantista della giustizia penale dopo il caso Tortora (vincendo un referendum sulla responsabilità civile dei giudici), di una nuova politica riformista in economia e nelle relazioni sociali (e anche lì, sulla scala mobile, aveva vinto un referendum). La Borsa era alle stelle, l’inflazione galoppante a due cifre era stata domata. Il cinghiale sembrava un leone ruggente.

E che accade? Il capo dei comunisti (alla vigilia del crollo del Muro di Berlino) e il capo dei democristiani, Natta e De Mita, decisero di estromettere Craxi dal governo e di andare al voto con un governicchio di loro gradimento, presieduto dal presidente del Senato Fanfani. Un “ordinato percorso verso le elezioni”. Si votò e Craxi prese qualche ridicolo decimale in più, dopo tre anni di spallate e di spinte al cambiamento. Gli italiani non volevano, appunto, cambiare il sistema. E Craxi che cosa fece? Ebbe una reazione di sdegno rassegnato, si intortò nel pentapartito, e disse che, se non volevano il cambiamento gli elettori, lui ne prendeva atto e rinunciava all’ambizione sua, aspettando che il pallino di Palazzo Chigi gli tornasse tra le mani dopo un governo Goria e un governo De Mita. Con il consenso deluso del leader della Grande Riforma, fu pienamente restaurata la vecchia partitocrazia consociativa. Risultato: qualche tempo dopo furono tutti arrestati, più o meno. Alle origini di tutto, una rinuncia. Craxi si era dimesso da Craxi. Dopo la rivoluzione delle manette, suppletiva della rivoluzione riformista che non c’era stata, arrivò a sorpresa Berlusconi, che liquidò i suoi avversari uno a uno e governò anche quando era all’opposizione dell’Ulivo, invadendo l’immaginario italiano per un ventennio e modificando il linguaggio politico e facendo perfino funzionare, tra un ribaltone e l’altro, l’alternanza che era sempre stata negata a questo paese in cui cambiavano i regimi, non i governi.

Quando la crisi finanziaria portò alla crisi politica, ingigantita dalla decisione narcisista da parte di Berlusconi di rompere con quel nano di Fini, che poteva tenere a bada senza conseguenze e invece sfidò in una grottesca ordalia, Berlusconi non chiese le elezioni, che Napolitano si disse disponibile a dare non essendo accettabile un quarto ribaltone in vent’anni, ma si accordò con Napolitano, poi accusato di essere un golpista (malamente accusato) per la soluzione Monti, e fu di nuovo restaurata in versione tecnocratica la partitocrazia detta, come ricorderete, dell’Abc (Alfano, Bersani e Casini se non ricordo male). Un fallimento: gli italiani che avevano detto di no a Craxi nel voto non furono in grado di dire né sì né no a Berlusconi dopo la crisi al buio del 2011. Perché, di nuovo, Berlusconi si era dimesso da Berlusconi. Risultato, emergenza finanziaria a parte di cui si presero cura con le tasse Monti e Fornero, furono le elezioni del 2013, con lo smacchiatore Bersani smacchiato e lo stallo istituzionale e politico. Anche qui: gli italiani non fecero una masaniellata, erano pronti a farsi sudditi dei tecnocrati piuttosto che darla vinta al “liberismo” di Berlusconi, di nuovo non volevano cambiare: ma al centro di tutto ci fu una rinuncia, quella del leader della rivoluzione del 1994, Berlusconi, ad accettare la sfida delle urne.

E veniamo a Renzi. Si è fatta molta confusione sul referendum, che Renzi ha perso e Zagrebelsky & C. hanno vinto. E’ di nuovo chiaro che gli italiani, con il possente e demente contributo dei giovani dai 18 anni ai 34 anni, quando sentono parlare di cambiamento, e magari ne vedono realizzato un pezzettino, mettono mano alla pistola e sparano voti contro. D’accordo. Però il tema del referendum e della battaglia connessa non era la riduzione dei costi e del numero dei parlamentari, come colpevolmente sebbene comprensibilmente Renzi si era rassegnato a dire, era altro, lo sappiamo tutti: la questione era un sistema monocamerale semplificato e una legge elettorale con il ballottaggio, seriamente maggioritaria. Ora se il leader Renzi non avesse già svenduto il ballottaggio addirittura prima del referendum nei negoziati interni al Pd, e se non si consegnasse come minaccia di fare alla volontà di Mattarella e alla Corte costituzionale di intraprendere un “ordinato percorso verso le elezioni”, che significa in concreto restaurazione del proporzionale e rinvio del voto con la legge maggioritaria per la Camera che c’è, mentre quella del Senato è diversa come lo è sempre stata; se non ci fosse la terza rinuncia del leader a essere sé stesso, le dimissioni di Renzi da Renzi, oggi avremmo una sia pur remota possibilità di andare alle elezioni con il ballottaggio e vedere nelle urne politiche se il paese sia capace di darsi un governo serio e di smentire il suo immobilismo. Il che sarebbe l’unica soluzione lineare: infatti è “inconcepibile” secondo gli ultimi due titolari del potere quirinalizio, che sono il democristiano Mattarella e prima di lui il comunista Napolitano, persone rispettabili ma estranee alle rivoluzioni riformiste passate e presenti. Gli italiani non vogliono cambiare, ma i loro leader rivoluzionari riformisti gli danno sempre un bell’aiutino.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.