Filippo Penati (foto LaPresse)

Sul caso Penati, i pm fecero un buco nell'acqua. Proprio per questo, promossi!

Ermes Antonucci
Se sei un magistrato e svolgi indagini “superficiali”, “lacunose” e distruggi una carriera politica, un’immagine pubblica e una vita privata, non devi preoccuparti. Non pagherai per gli errori commessi.

Roma. Se sei un magistrato e svolgi indagini “superficiali”, “lacunose” e in contrasto con i princìpi basilari della Costituzione non devi preoccuparti. Non pagherai per gli errori commessi e, anzi, correrai il rischio di essere promosso. E’ il caso dell’ex sostituto procuratore di Monza, Walter Mapelli, nominato lo scorso 8 giugno capo della procura di Bergamo dal plenum del Consiglio superiore della magistratura (Csm). E’ stato Mapelli, assieme alla sua collega a Monza Franca Macchia, a portare avanti l’indagine durata quattro anni e mezzo (tre di processo) nei confronti dell’ex presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, per i reati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Si parlò di “sistema Sesto”, cioè di un sistema istituzionalizzato di tangenti e mazzette messo in piedi da Penati per condizionare le concessioni edilizie a Sesto San Giovanni, grazie ai movimenti occulti di una “cricca” composta da imprenditori, funzionari pubblici e politici locali. Ci fu un vero e proprio terremoto politico, con l’ex braccio destro di Pierluigi Bersani costretto alle dimissioni da vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia. Nel provvedimento di arresto per Penati (bocciato dal gip, primo campanello d’allarme per l’accusa) i procuratori Mapelli e Macchia si spinsero a definire il consigliere regionale un “delinquente matricolato”, espressione che poi finì su tutti i giornali, alimentando il solito tritacarne mediatico-giudiziario.

 

Una carriera politica, un’immagine pubblica e una vita privata distrutte per sempre. Poi, il 10 dicembre 2015, la sentenza di primo grado del tribunale di Monza: tutti assolti, inclusi Penati. Nessun “sistema Sesto” e nessuna traccia del “fiume di tangenti” denunciato dalla procura. Ma i giudici non si fermano qui, e oltre a smontare l’impianto accusatorio delineato dai procuratori si lanciano in una durissima reprimenda nei confronti dei metodi usati dai pm nello svolgimento delle indagini e delle loro “strane” concezioni del processo penale. Così la sentenza non si limita solo a definire “superficiali” i controlli effettuati dalla procura sui conti bancari di Penati e “lacunose” le indagini patrimoniali, ma condanna anche in termini netti la tesi “originale” avanzata dai procuratori per la quale le rogatorie estere non avrebbero dato alcun esito solo a causa della “scaltrezza” di Penati, consegnando a Mapelli e ai suoi colleghi una sorta di lezione sulle nozioni minime di diritto costituzionale e penale: “Non v’è chi non veda come un simile ragionamento sia estraneo al nostro sistema penale e costituzionale, perché in contrasto con il principio della presunzione d’innocenza di cui all’art. 27 comma 2 della Costituzione e con la ratio del processo accusatorio secondo cui è la pubblica accusa a dover provare la colpevolezza e non l’imputato la propria innocenza”.

 

In altre parole, secondo i giudici, i procuratori Mapelli e Macchia avrebbero ribaltato il principio di presunzione di innocenza in un principio per cui si è colpevoli fino a prova contraria. Questa strana concezione della giustizia era emersa già nel corso del dibattimento, nel novembre del 2014, quando Penati fu protagonista in aula di un battibecco con il procuratore Franca Macchia dai toni surreali: “Scusi, dottoressa, ma dovrei dirglielo io dove sono finiti i soldi delle tangenti?”. Come se non bastasse, nella sentenza di assoluzione i giudici di Monza si ritrovano costretti a dover spiegare ai pm un’altra questione che in linea teorica dovrebbe essere così scontata da non meritare alcuna considerazione, e cioè che “appartiene alla fisiologia del processo penale che l’iniziale ipotesi investigativa, coltivata dalla polizia giudiziaria e dall’ufficio inquirente, possa non trovare conferma nel corso dell’istruttoria dibattimentale, luogo in cui non vi è (né può esservi) spazio per i sospetti, le suggestioni, le ipotesi, i meri indizi, più volte richiamati dal pm nel corso della sua articolata requisitoria”. Insomma: i giudici non esistono solo per ratificare le ricostruzioni dei pm, e nel processo contano le prove.

 

In un paese normale, probabilmente, aver costretto dei giudici a far notare questi semplici princìpi in un aula di giustizia avrebbe comportato il ritiro, imbarazzato, a vita privata dei procuratori autori dello sfacelo. E invece uno di questi pm, Walter Mapelli, ha ritenuto che la cosa migliore da fare fosse chiedere la promozione a procuratore capo della procura di Bergamo. Il Csm ha pensato bene di approvare la richiesta un mese fa, con 15 voti favorevoli su 24. Il paradosso dei paradossi è che nel fascicolo di valutazione dell’ex sostituto procuratore di Monza, redatto – in toni trionfalistici – dai suoi colleghi magistrati della Quinta commissione, l’indagine compiuta nei confronti di Penati viene anche richiamata tra i “procedimenti più significativi” trattati negli ultimi anni dal pm (anche se non si specifica come è andata poi a finire), che nel complesso risulta così aver “dimostrato sul campo eccellenti doti investigative e requirenti”.