Grafica di Stefano Trevigiani via Flickr

Chi ha ingrassato il debito pubblico?

Rocco Todero

Dal solidarismo cattocomunista alla rincorsa del consenso negli anni settanta sino agli ultimi decenni d'irresponsabilità finanziaria. Breve storia di come siamo arrivati sull'orlo del precipizio.

Qualche settimana fa abbiamo ricevuto la lieta novella di un debito pubblico nazionale che ha sforato l’ennesimo record. Si è  raggiunta l’astronomica cifra di 2.300 miliardi di euro, più del 130% del PIL, oltre 35.000 euro di debito a testa per il i 60 milioni di italiani che vivono nella penisola.

 

E’ una cifra impressionante, una percentuale da economia post conflitto bellico che nella storia italiana si era registrata infatti solo nel periodo tra il 1919 e il 1924.

 

Un organismo mostruoso, oltre ogni soglia di obesità, il debito pubblico è cresciuto nel corso del tempo con ritmi e cadenze alterne: pesava tra il 25 ed il 35% del PIL negli anni sessanta, era già il 40% del 1971, il 65% nel 1982, è balzato al 92,6% nel 1988, al 120% nel 1994, al 130% nel 2008. E’ prevalentemente il risultato della bulimia delle amministrazioni centrali dello Stato, dei deficit registrati nel mezzogiorno d’Italia (dal 1963 al 1994 deficit territoriale costante fra il 20 ed il 35%) e dovremo restituirlo in gran parte ai nostri concittadini che ne detengono circa i 2/3 del totale. Oggi ci costa ogni anno una montagna di interessi di quasi 80 miliardi di euro che vanifica gli sforzi di ogni immaginabile avanzo primario.

 

Ma com’è nata questa creatura gigantesca? Com’è cresciuta? Perché è ingrassata così tanto da rappresentare oggi un serio pericolo per l’intero Paese?

 

Abbiamo interrogato parte della storiografia e della letteratura di settore e abbiamo squadernato le fonti a beneficio di chi vorrà consultarle, verificarle e rigirarsele fra le mani per provare l’ebbrezza di un viaggio fra alcuni risvolti della nostra storia patria sempre troppo trascurati. I titoli delle opere consultate sono questi: “L’arte del non governo” di Piero Craveri, “La Grande slavina” di Luciano Cafagna, “La democrazia distributiva” di Loreto Di Nucci, “Storia della Repubblica” di Guido Crainz, “Il Macigno” di Carlo Cottarelli, “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” di Franco Debenedetti.

 

Le conclusioni cui è pervenuta la ricerca storiografica appaiono granitiche e per questa ragione possono essere considerate un sicuro punto d’approdo: il debito pubblico è il risultato di un’avversione politica al capitalismo e al liberismo che si radica nelle culture dominanti del Bel Paese all’indomani della seconda guerra mondiale. Nel 1946 s’incontrano “due solidarismi”, quello democratico cristiano e quello comunista; entrambi raccolgono l’eredita fascista del paternalismo di Stato e del partito che si deve fare Stato attraverso un’opera di occupazione che annichilisce l’autonomia e l’imparzialità delle istituzioni repubblicane. Il mercato è considerato un’idea astratta, il suo funzionamento attribuisce vantaggi agli individui, non alle organizzazioni politiche e quindi deve essere combattuto. Rappresenta un’aspirazione che alberga solo nella mente di Sturzo, Einaudi e De Gasperi, ma avranno da subito la meglio i La Pira, i Dossetti, i Fanfani i Moro e, manco a dirlo, i Togliatti.

 

La miseria si taglia a fette nel dopoguerra, la disoccupazione è di 1,6 milioni di persone ed il consenso elettorale si conquista con le prebende della spesa pubblica. Il rischio che il fronte delle sinistre ottenga il favore della maggioranza degli elettori e sconquassi l’assetto geopolitico mondiale deciso a Yalta costringe la democrazia cristiana per prima a non andare troppo per il sottile: si deve aiutare la povera gente e lo si può fare con il deficit e il debito che si accumula. L’effetto immediato è pari a zero; nessuno lo vede perché alla sottoscrizione del debito pubblico non corrisponderà mai l’equivalente aumento della tassazione. La pace sociale è assicurata.

 

Ad una prima fase di spesa pubblica a debito giustificata per contrastare gli andamenti ciclici dell’economia subentra una prassi da costituzione materiale che, sopratutto a partire dagli anni settanta, costringerà la Democrazia Cristiana ad inseguire il gioco al rilancio del Partito Comunista e dei sindacati collaterali; si devono ampliare senza limiti le basi dello Stato sociale, questa è la minaccia. Altrimenti? Altrimenti sarà rivoluzione o sciopero generale ad oltranza o occupazione delle fabbriche o tensione sociale strisciante e continua o qualcos’altro che non darà pace a nessuno. Gli anni settanta sono un incubo di agitazioni sociali. Alla democrazia cristiana non dispiace di certo occupare lo Stato e tutto quanto possa trasformare potere politico in consenso elettorale. Il parastato si accolla i cosiddetti “oneri impropri”, mantiene cioè in vita aziende fuori mercato che aprono i cancelli la mattina solo per impiegare gente che produce perdite di danari pubblici la sera. Nel 1981, però, Beniamino Andreatta consuma uno strappo definitivo: elimina l’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito pubblico che rimangono invenduti sul mercato. D’ora in poi per convincere gli acquirenti dei titoli di Stato a comprarsi tutto il cocuzzaro ci vogliono tassi d’interesse a due cifre. L’effetto è l’onomatopea che si legge spesso nei fumetti che raccontano le catastrofi delle battaglie dei super eroi: boom! 1988: debito pubblico vicino al 100 del PIL!

 

Il resto è storia recente. Negli ultimi venti anni davanti allo scoglio della presunta coesione sociale si sono infranti i flutti riformatori del centro destra e del centro sinistra. Nessuno ha voluto rischiare di perdere il consenso di un popolo che sulla spesa pubblica si è allegramente raccontato di essere benestante. Non è stato un caso che le riforme ed i principali tagli alla spesa sono stati opera di tecnici prestati alla politica che non hanno coltivato ambizioni elettorali: Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e, fino ad un certo punto, Mario Monti. Ad ogni modo, anno 2017, debito pubblico pari a 2.300 miliardi di euro.

 

Se osserviamo la storia da un altro punto di vista, quello della sequenza dei principali provvedimenti che hanno ingrassato il debito pubblico, possiamo apprezzarne meglio il ritmo, la cadenza e gli effetti. Nel 1949 si parte già con 250.000 persone impiegate nei cantieri scuola. Presto diventeranno 356.000 e costeranno prima 15 poi 22 miliardi di lire l’anno. Nel 1953 il testo unico per i pubblici dipendenti consentirà il pensionamento degli uomini a 25 anni e delle donne a 20 con pensione retributiva e non contributiva. Parte la corsa alla pensione facile dunque (anche a quella baby) che diventerà sempre più un diritto sociale indipendente dall’andamento economico e perderà il suo connotato naturale di retribuzione differita. Pensione per tutti, anche per gli agricoltori che dichiarano autonomamente le giornate di lavoro. Tra il 1960 ed il 1976 le pensioni d’invalidità cresceranno del 400%, sopratutto nel Sud Italia. Nel 1969 si abbandona definitivamente il criterio contributivo.
Sempre nel 1976 la legge n. 285 permetterà a decine di migliaia di giovani di entrare senza concorso negli enti locali e negli uffici periferici delle amministrano statali, istituzionalizzando la categoria dei “precari tutta la vita” e nello stesso periodo si conteranno già 700.000 dipendenti delle imprese a partecipazione statale.

 

Nel frattempo l’interventismo statale in economia ha prosciugato le risorse che il mercato dei capitali avrebbe potuto destinare alle aziende private: il credito destinato al settore pubblico, infatti, passa dal 30% del totale erogato degli anni sessanta, al 60% degli anni settanta e in 23 anni (dal 1960 al 1983) la spesa pubblica passa dal 31,2% al 62,5% quando la pressione fiscale nello stesso periodo aumenta solo dal 26 al 41%. Quello che manca è tutto debito pubblico. E’ la pace sociale, bellezza!
All fine degli sessanta l’autofinanziamento delle aziende pubbliche era già sceso sotto il 50%, nel 1971 è pari solo ad un misero 19%. Nel 1989, infine, Bruxelles accerterà che gli aiuti concessi dallo Stato italiano alle imprese rappresentano il 55% del totale degli aiuti statali nell’intera Comunità, mentre nel 1991 gli addetti al settore pubblico allargato contano 4,2 milioni di persone ed il 18% del totale degli occupati.

 

Ma quali erano le riflessioni della nostra classe dirigente mentre il Paese soffocava sempre più sotto il peso di questo enorme debito pubblico? Erano pensieri di politici, banchieri ed imprenditori tutti consapevoli ma impotenti, come intrappolati dalla forza di una legge universale della politica: ad una minore spesa pubblica corrisponde un’insopportabile perdita di consenso elettorale.. E’ impressionante leggere le riflessioni di alcuni protagonisti di quella stagione.

 

Già nel 1963 Amintore Fanfani si rendeva conto che le richieste di aumentare la spesa sociale erano illimitate senza che nessuno si chiedesse tuttavia chi fosse a pagare. Ma erano ben consapevoli anche Guido Carli, che notava come i salari fossero diventati una variabile indipendente, ed Ugo La Malfa, che osservava come l’eccessivo peso dello Stato in economia lo stesse facendo scivolare “verso una situazione minacciosa”.

 

Nel 1973 in un rapporto del Censis si poteva leggere che la spesa pubblica è diventata “il ventre molle verso cui tutte le pressioni e gli attacchi si sono esercitati”. Sbalorditiva l’ammissione di Francesco Cossiga: “non potevano innestare nella contrapposizione politica anche la lotta sociale. Quindi i famosi assegni d’invalidità …erano in realtà allocati dal ministro dell’interno per tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.” Ma ebbe consapevolezza del baratro, senza tuttavia tentare mai d’invertire la rotta, anche Bettino Craxi, il quale chiese al Ministro del Tesoro Giovanni Goria di “glissare” sulla cifra dell’indebitamento annuo di circa 100 miliardi di lire perché quel numero era “politicamente impresentabile al Parlamento” e nel 1992 ad un convegno organizzato dal quotidiano “Repubblica” ammise: “Se c’è una critica da fare a noi stessi è di avere ereditato una situazione economica positiva e di non avere saputo utilizzare i risultati di quegli anni di vacche grasse per ridurre davvero il deficit sociale”.

 

Ma la confessione più incredibile rimane quella dell’allora immarcescibile Giulio Andreotti, che in occasione della conclusione del Consiglio europeo di Maastricht, annotava nel suo diario l’ignavia, l’impotenza e la complicità di un intero Paese:”Il Trattato sarà la linea guida per le politiche interne; deve essere per noi quello che non è stato l’art. 81 della Costituzione le cui violazioni oggi pesano”. Chissà se vale ancora il vecchio insegnamento latino Historia magistra vitae.

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