Harvey Weinstein, Hillary Clinton e Gwyneth Paltrow alla prima di “Shakespeare in Love” nel 1998

Perché la fine di Weinstein è il tramonto dell'impero dei Clinton

Leggere la vicenda del produttore più potente di Hollywood alla luce di un esperimento mentale: “La storia sarebbe stata pubblicata se Hillary avesse vinto le elezioni?”

C’è quella che scrive dove siete adesso maledetti uomini complici del produttore-stupratore?, ci sono quelli che Asia Argento alla fine non s’è ribellata più di tanto, quelli che s’indignano a vent’anni di distanza, quelle che sporgono denuncia postuma, quelli che dicono tutti sapevano tutto e quella, la regina delle dive, che era troppo impegnata con i copioni per occuparsi dei pettegolezzi, e quindi non sapeva che Harvey Weinstein faceva sempre la parte del potente volgare sessopatico. Infine, sono arrivati i realisti illuminati: di cosa vi stupite?, è dai tempi di Noè che i produttori potenti concedono successo in cambio di sesso, avanti con la prossima ovvietà. Domani magari si farà largo la nuova chiave interpretativa: il gentiluomo Weinstein è stato incastrato.

 

Un altro modo per leggere la disgrazia non accidentale del produttore più potente di Hollywood è quello di Lee Smith, che negli anni Novanta lavorava a Talk, il giornale della Miramax concepito da Weinstein e diretto da Tina Brown, uno strumento efficace per mettere a tacere, con ricche prebende, giornalisti potenzialmente pericolosi. Smith propone sul Weekly Standard un esperimento mentale: “La storia di Weisntein sarebbe stata pubblicata se Hillary Clinton avesse vinto le elezioni?”. La risposta è negativa, “ma non perché è un finanziatore dei democratici. Perché se la storia fosse stata pubblicata durante la presidenza Clinton, non sarebbe stata in realtà una storia su Harvey Weinstein. Lui sarebbe stato visto come il tramite del marito del presidente e avrebbe messo in imbarazzo il primo presidente donna”. La disgrazia di Weinstein è, insomma, il segno del crepuscolo della dinastia dei Clinton, è un passaggio di testimone necessario dopo che le elezioni del 2016 hanno affossato ogni ambizione clintoniana. La famiglia che per venticinque anni ha controllato con metodi maniacali il partito democratico e pattugliato con diligenza l’ideologia liberal nelle sue varie province, da Hollywood alle università dell’élite, s’è dedicata alle pulizie di primavera, ha chiuso la Global Initiative, ha preso le distanze dai finanziatori sospetti, si è liberata da una serie di personaggi doppi e poco raccomandabili che per decenni hanno lavato i panni sporchi e ha consegnato le chiavi del tabernacolo democratico alla famiglia Obama. Che certo i suoi contatti con il mostrificato Weinstein li ha avuti – la figlia di un presidente non fa stage in una casa di produzione trovata su LinkedIn – ma per i Clinton era parte della scenografia. La fine ingloriosa di Weinstein, per mano del New York Times e del New Yorker, sicari improbabili, è la storia del tramonto di un impero politico, delle sue ambizioni frustrate, dei suoi sordidi segreti di corte.