Vite minuscole

Alessandro Litta Modignani

di Pierre Michon, Adelphi, 204 pp., 18 euro

In un’epoca di progressiva e generalizzata standardizzazione, il primo compito – anche in ambito letterario – è proteggere e valorizzare tutte le opere che esprimono un’irriducibile singolarità, lasciando emergere il timbro di una voce unica e inconfondibile”: così Franco Marcoaldi (1955), in riferimento a questo “Vite minuscole”, opera prima di Pierre Michon apparso in Francia nel 1984 e ora pubblicato in Italia da Adelphi. E’ vero: siamo di fronte a un’opera di alta qualità letteraria, scritto in una prosa superlativa. “Vite minuscole” è un romanzo breve, strutturato in otto racconti, i cui protagonisti sono personaggi all’apparenza insignificanti, esistenze infime, uomini e donne mediocri, gente qualunque sottratta all’anonimato dalla forza narrativa di una scrittura potente e bellissima, “capace di trasformare la carne morta in testo e la sconfitta in oro”. Dufourneau è un omaccione che si svincola dalla sua vita predestinata di contadino e decide di partire per l’Africa: “Tornerò ricco o morirò laggiù”. I litigiosi fratelli Bakroot, compagni di collegio dell’autore, “non avevano niente di speciale: eppure era lì, tra le gambe indaffarate di una coppia di contadini come mille altri, che si era innescata chissà in che modo quella rivalità esclusiva”. L’autore descrive minuziosamente le botte che i due si scambiano di continuo, ma alla fine sarà un gesto particolare a restituire alla vita il suo senso alto e tragico. Pére Foucault, in una corsia d’ospedale, non vuole curarsi dal cancro perché – se ne vergogna e infine lo confessa – è analfabeta. Padre Bandy è ridotto a una caricatura di sacerdote, ma la sua sconfitta non deriva dall’avere peccato con molte donne, tutt’altro: “Non era successo niente, a parte quello che succede a tutti: l’età, l’andar del tempo”. Michon dimostra una straordinaria capacità di penetrazione psicologica, tutti i suoi personaggi sono sviscerati da una prosa vivida. “Vite minuscole” è anche, sottotraccia, un romanzo autobiografico, nel quale l’autore racconta le donne, i libri, la sorellina morta, il suo sconforto di uomo ubriaco e di scrittore fallito. “Eppure mi dicevo: come avrei scritto bene!; non bastava forse che la mia penna padroneggiasse un centesimo di questa favolosa materia? Purtroppo era tale solo perché non aveva né tollerava padroni, si trattasse anche della mia stessa mano. Se l’avessi scritta non avrebbe lasciato sulla pagina che cenere, come un ceppo dopo la fiammata o una donna dopo il piacere”. Saranno proprio gli umili tormenti dei protagonisti a consentirgli infine di realizzare questo suo primo capolavoro. “Scoprivo i libri, in cui ci si può nascondere così come fra le sottane trionfali del cielo”. Franco Cordelli non apprezza particolarmente Michon, sostiene che in lui vi sia “un elemento intellettuale che a un certo punto diventa ideologico” e che “il gioco di mettere insieme sì e no forse è finito”. Claudio Magris invece lo accosta a Borges: “Borges diceva: io non so raccontare. (…) Probabilmente Michon ritiene che sia abusivo, forse irresponsabile pretendere di entrare nei pensieri e nei sentimenti di un altro. Si può forse solo cogliere un’espressione sul suo viso (…) e cercare di capire, di immaginare quale è stato il senso del suo destino”. Considerato in Francia un autore di culto, Michon sicuramente non è di facile lettura e non cerca mai l’uscita più vicina. Qualcuno giudicherà “Vite minuscole” un libro pesante, privo com’è di una trama e di un percorso lineare. Non sempre è facile riconoscere, fra tante offerte, le opere con le quali vale davvero la pena di misurarsi.

 

VITE MINUSCOLE
Pierre Michon
Adelphi, 204 pp., 18 euro

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