Altro che aragosta

Mariarosa Mancuso
Non ci si butta sulla fantascienza filosofica senza aver mai visto “The Twilight Zone Companion”

    La prima serie non si scorda mai. Riappare quando il Festival di Cannes mette in concorso “The Lobster” di Yorgo Lanthimos, regista greco tornato a casa con un premio speciale della giuria. In una selezione che faceva l’elenco dei mali del mondo – adolescenti con infanzia difficile per iniziare, riscaldamento globale per finire – pareva un carciofo in un mazzo di rose. Fantascienza filosofica, la peggiore: basta vedere come è finito male Christopher Nolan con “Interstellar”. Vale a dire, uomini e donne che se non trovano un compagno entro 40 giorni saranno trasformati in un animale di loro scelta. Colin Farrell (in questo film con la pancetta e i baffi di Ned Flanders, il devoto cristiano vicino di casa della famiglia Simpson) sceglie appunto l’aragosta.

     

    Ci si chiede se Yorgo Lanthimos abbia mai visto qualche episodio di “Ai confini della realtà”, la serie creata da Rod Serling nel 1959. D’accordo, il giovanotto greco è nato nel 1973, ma ci sono cose che uno deve recuperare, se ha in mente atmosfere che stanno tra il bizzarro e il perturbante (come era “Dogtooth”, il suo primo film, e come questo non riesce a essere). Assieme a “Star Trek”, iniziata nel 1966, uno dei programmi più replicati della tv americana.

     

    Parliamo delle prime cinque stagioni, i revival degli anni Ottanta e degli anni 2000 non contano (un po’ meglio il film a episodi del 1983 diretto da Joe Dante, Steven Spielberg, John Landis e George Miller ora di nuovo su tutti gli schermi con “Mad Max: Fury Road”). Comodamente reperibili in cofanetto, e se non basta esiste “The Twilight Zone Companion” di Marc Scott Zicree: racconta la trama di ogni episodio – scritti da Richard Matheson (che poi per Spielberg adatta il suo racconto “Duel”), George Beaumont (Alzheimer a meno di quarant’anni) e Ray Bradbury – aggiungendo curiosità, trucchi, cambiamenti in corso d’opera. Lettura ricca di consigli che i registi artisti non daranno mai (perché non li sanno). Più utile delle storie di fantascienza che Yorgo Lanthimos sembra avere letto, scomposto, rimontato a caso nella sceneggiatura. Firmata da lui medesimo: divisione del lavoro mai (e sì che funzionerebbe benissimo, non solo per fabbricare gli spilli di cui racconta Adam Smith all’inizio di “La ricchezza delle nazioni”), e dire ritmo è come bestemmiare.

     

    La prima serie non si scorda mai, procurò brividi di terrore mai più provati dopo. Senza sangue, senza esplosioni, senza sottolineature. Al massimo un rovesciamento del punto di vista, come nel racconto “La sentinella” di Frederic Brown (altro choc mai più riprovato, hai voglia a vedere film dell’orrore). Siamo identificati con la vedetta che teme il nemico e gli spara, finché il nemico muore, e la sentinella che credevamo umana guarda la vittima, “una creatura schifosa, con solo due gambe, la pelle di un bianco nauseante, e senza squame".

     

    “Servire l’uomo” e “L’occhio di chi guarda” sono due tra gli episodi più famosi (carne, assieme ad altri, per “I Simpson”, che ne fanno parodie negli speciali Halloween). Nel primo, “To Serve Man” non corrisponde alle “Istruzioni alla servitù” di Jonathan Swift, scopriamo che si tratta di un ricettario per manicaretti. Nel secondo, una signorina  bendata trema per l’esito dell’intervento di chirurgia plastica. Il chirurgo la rassicura, e solo alla fine capiamo che è un mostro, al pari delle infermiere (per la mezz’ora dell’episodio sono quasi sempre in ombra, o di spalle, ma non ce ne accorgiamo): la bellezza, appunto, è nell’occhio di chi guarda. Fantastico anche l’episodio “Prigionieri di Anthony”, che allora non si faceva troppo notare, e oggi sembra profetico. Una signora investe un bambino, e lo riporta a casa per rassicurare i genitori. Scoprendo che il piccino li tiene segregati in soffitta, e usa come genitori gente di passaggio tenuta prigionioniera, quindi disposta a soddisfare ogni capriccio.

     

    Correzioni senza batter ciglio

     

    Incredibile ma vero, c’era anche un tempo in cui si sapevano tradurre i titoli, e nel caso reinventarli. “Ai confini della realtà” sta per “The Twilight Zone”, dove “twilight” sta per crepuscolo (accadeva molto tempo prima che le ragazze sognassero un vampiro da sposare). “La quinta dimensione, senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità” diceva Rod Serling nel discorsetto che apriva le puntate, celebre come Hitchcock che introduceva la sua serie tv. Veramente, nel copione aveva scritto “la quarta dimensione”, poi gli fecero notare che c’era già e nella teoria della relatività si chiama “tempo”. Riga su “quarta”, sostituito con “quinta” senza batter ciglio. Così nascevano i capolavori della tv.