Martin Amis. LaPresse/EFE

Nemico, amico, padre

Lisa Ginzburg

La grande competizione fra Martin e Kingsley Amis, che con amore volevano sconfiggersi

Infanzia? Quale infanzia? Io non ne ho avuta”, pare che Martin Amis abbia detto in reazione all’idea di Nabokov per cui i primi anni di vita di uno scrittore sono il suo “baule del tesoro”. Adulto, in effetti, Martin Amis sembra esserlo diventato troppo presto. Incomincia a pubblicare nel 1970 (ventunenne); quattro anni dopo, con The Rachel Papers, già è vincitore del prestigioso Somerset Maugham Award, lo stesso che suo padre aveva vinto nel 1955. A Martin viene assegnato meno che venticinquenne, il padre lo aveva ricevuto quasi a trentacinque anni. La gara incomincia lì.

   

Kingsley Amis muore nel 1995. Nei venticinque anni della loro “coesistenza” professionale, il confronto tra padre e figlio è serrato, teso. Vi si addensa un molto più vasto sommovimento letterario, un passaggio di consegna che racconta la metamorfosi di un’eredità, britannica e non solo: la transizione dal modernismo al postmodernismo. Scrittori dalle prose diversissime, ma accomunati da un medesimo spiccato amore della carriera – tutti e due pragmatici promotori di se stessi. E anche, entrambi uomini dai vari amori, mossi da un’inquietudine poligamica da entrambi vissuta in maniera controversa ma non tormentata da particolare scrupolo.

   

Kingsley Amis definisce il figlio il suo migliore amico: alla giornalista Mira Stout, descrive Martin come “una persona responsabile, e soprattutto sana. Amo la salute”. Per Martin Amis, il padre è “piacevolissimo avversario”. Cavallereschi riconoscimenti reciproci, dietro i quali si celano pulsioni più complicate. Appoggiare Martin nella scelta di diventare come lui scrittore, è una nemesi, per Kingsley Amis – lui che è stato figlio ostacolato da un padre tirannico (per il quale ha composto versi che sono perfetta descrizione dell’intrecciarsi di amore e senso di colpa: “Mi dispiace che devi morire/ Dovermi pentire / Che tu non sia qui ora”). Martin ha dodici anni, quando Kingsley incontra e si lega molto seriamente a Elizabeth Jane Howard, una donna bella e intelligente, anche lei scrittrice, figura di “matrigna” decisiva per tutti i figli di Kingsley, e per Martin in particolare. L’ha ricordata in una vibrante orazione funebre, pochi anni fa, raccontando come sia stata lei, Jane, la madrina del suo battesimo letterario – gli dava da leggere Jane Austen, Scott Fitzgerald, Dickens.

   

Nel 1987, padre e figlio (quarantenne) vengono invitati a posare per The National Portrait Gallery. Il ritratto è solenne, in bianco e nero. Martin, in piedi dietro il padre seduto, gli tiene un braccio sulla spalla: apparentemente complice, mansueto. Imbolsito dagli anni, Kingsley guarda fisso davanti a sé. Sono impacciati e seccati, entrambi. Da qualche parte di sé, di quel padre Martin Amis ha necessità di liberarsi. Da qualche parte di sé, quel figlio per Kingsley Amis è una vera rogna. Il successo dei romanzi di Martin Amis è ascendente, presto acclarato. La cosa mette il padre in evidente difficoltà. La competizione è lì, non più sottotraccia. Lo scarto anagrafico, un pungolo doloroso. All’amico poeta Philip Larkin, Kingsley Amis scrive: “Di sicuro Martin Amis è più famoso di me adesso (…) Ma la verità è, Phil, che tutti soffriamo delle limitazioni dell’età in cui nasciamo”. Ancora in una lettera a Larkin, esterrefatto riporta gli introiti milionari di Martin. Nell’ottobre dello stesso anno, Kingsley Amis muore. Mesi prima, sul “New Yorker”, Martin aveva dichiarato: “Gli scrittori più vecchi devono sentire quelli più giovani come nemici, perché i giovani stanno inviando loro un messaggio spiacevole. Stanno dicendo loro: ‘Non è più cosà. Adesso è così’ ”.

   

I veri conti con la figura del padre, Martin Amis li fa dopo la sua scomparsa. “Esperienza” è un’autobiografia attraversata dal fil rouge del rapporto con Kingsley. Nessuna cosmesi per sfumare le tensioni tra i due. Jane, la “matrigna”, è descritta come trascurata da Kingsley, oggetto perciò di aspre critiche (“per molti anni ho pensato che Kingsley disonorasse Jane e anche se stesso quando negava la forza dei suoi sentimenti per lei. Cercava di riscrivere il passato, cercava la spersonalizzazione, il disamore; e non si può fare così, o almeno, io ne ero convinto”). Un uomo anche buono, inoffensivo – che non lascia le donne ma si fa lasciare (anche da Jane), che è capace di dedicarsi agli amici e infondere loro vita e brìo . Figura paterna piena di contrasti, per la quale il figlio prova sentimenti misti – in “Esperienza” raccontati con chiarezza. Poi arriva la fine, per Kingsley. E un sogno, per Martin Amis, che lui narra di aver fatto poco tempo dopo avere perso il padre. Un sogno in cui Kingsley ritorna, e la sintonia tra i due è totale, e il figlio chiede al padre di cosa abbia desiderio, ma si accorge che “ i miei desideri sono i tuoi, e io sono te e tu sei me”. La simbiosi temuta per tutta la vita, ora, nell’assenza, si può sperimentare. Due mesi prima che Kingsley morisse, Martin con la sua famiglia si era trasferito in Regent’s Park Road, la strada di Londra dove il padre aveva abitato negli ultimi tempi. Scelta eloquente di un bisogno di ricongiungimento, ora che la morte ha interrotto un rapporto venato di confronti e invidie, con troppa disinvoltura sbandierato come “risolto” (dal figlio soprattutto) per non lasciar indovinare ben altre complessità sottostanti. La storia talvolta si ripete. Il cerchio si chiude, ritorna ai versi da Kingsley Amis composti per il proprio padre: “Mi dispiace che devi morire/ Dovermi pentire / Che tu non sia qui ora”.

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