Bio onnipotente

Luciano Capone

C’è sempre stato qualcosa di sacro nel nostro approccio al cibo. Ma oggi le scelte alimentari sono diventate una fede in sé, con il suo dio-natura, il suo paradiso, i suoi demoni. Bufale, certezze e pregiudizi di una nuova guerra di religione

In questi giorni, chi più chi meno, tutti siamo stati impegnati in lunghi e a tratti estenuanti pranzi e cene. L’abbondanza e soprattutto la grande varietà dei banchetti delle festività natalizie da un lato sono sicuramente figlie della ricchezza della società moderna, che consente a quasi chiunque di poter imbandire una tavola ricca di cibi e bevande come solo le famiglie reali potevano permettersi fino a qualche secolo fa, ma hanno un legame indissolubile con il festeggiato, con il fondatore della religione cristiana, che ha dato il via a una vera e propria rivoluzione e liberazione alimentare eliminando i preesistenti divieti alimentari ebraici: “Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!” (Matteo 15:11). Da sempre il cibo non è mai stato considerato solo come un frutto della natura o un semplice prodotto dell’ingegno e dell’attività umana, bensì come un dono delle divinità. Di conseguenza l’alimentazione è sempre stata ritenuta come qualcosa che ha a che fare col sacro, col nutrimento dello spirito oltre che del corpo (e questo, naturalmente, anche nella religione cristiana). Ogni civiltà ha avuto una divinità legata alla coltivazione su cui si basavano la dieta e il sostentamento della società: Demetra e Cerere erano le dee del grano per i greci e i romani, così come Ashnan lo era per i Sumeri; Dewi Sri era la dea del riso nell’Indonesia pre islamica; nelle civiltà pre colombiane c’erano le divinità del mais, il cereale che secondo i Maya non fu semplicemente donato agli umani, ma fu l’ingrediente che gli dei impastarono per modellare la carne degli uomini.

Tutte le religioni danno un ruolo centrale al cibo, visto come una forma di mediazione col divino

Proprio per questa rilevanza sociale dovuta all’indissolubile legame col sacro, tutte le religioni danno un ruolo centrale al cibo, visto come una forma di mediazione col divino, perciò sempre presente nelle pratiche rituali e ritenuto, nelle varie forme di digiuno e astinenza, come una via per la purificazione e la salvezza. Per questo le religioni si sono occupate di ciò di cui si nutrono gli uomini imponendo una serie di divieti alimentari e regole per la corretta alimentazione, che per un verso si rifacevano a motivazioni igienico-sanitarie (si pensi al “Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale” del Vecchio Testamento), ma soprattutto avevano e hanno come scopo la costituzione di una forte identità di gruppo, visibile e distinta dai non credenti, e che serva come barriera per evitare contaminazioni.

Per gli ebrei le norme sulla kashrùt, sull’adeguatezza di un cibo a essere consumato, sono contenute principalmente nel Levitico e nel Deuteronomio e riguardano sia la natura del cibo che la sua preparazione: sono ad esempio proibiti perché considerati impuri animali come il maiale, i crostacei, diversi uccelli e vari tipi di pesce. In generale sono puri i mammiferi che hanno la doppia caratteristica della ruminazione e dello zoccolo spaccato (bovini e ovini sì, suini ed equini no), i pesci con squame e pinne. Ci sono norme precise sulla macellazione, sulla coltivazione e sulla cucina (non si possono mescolare cibi a base di latte e carne).

Allo stesso modo dal Corano e dalla Sunna deriva per gli islamici una serie di indicazioni alimentari, che ad esempio proibiscono il consumo di maiale, animali carnivori, alcuni tipi di volatili, rettili e insetti. E gli alcolici. Anche nel caso dell’Islam ci sono precetti sulla macellazione, che deve essere effettuata secondo uno specifico rituale che prevede il dissanguamento dell’animale. Così le religioni orientali, generalmente ma con differenze specifiche per ogni corrente, predicano un’astensione dai cibi preparati con la carne. Sappiamo bene che per l’Induismo la mucca è un animale sacro, ma più in generale la preferenza per una dieta senza carne rientra nell’osservanza della dottrina dell’“Ahimsa” (non violenza nei confronti di tutti gli esseri viventi). Principi analoghi sono alla base del buddhismo e, in maniera più radicale, del giainismo, tanto da spingere i fedeli di quest’ultima religione a coprirsi la bocca con un bavaglio per evitare l’ingestione involontaria di insetti o piccoli esseri viventi. Per il cristianesimo, che pure deriva e si basa sugli stessi testi sacri dell’ebraismo, come già ricordato, non esistono tabù alimentari e cibi proibiti da quando Gesù Cristo dichiarò “mondi tutti gli alimenti”: “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?” (Marco 7:18). 

Tante correnti che si basano generalmente sulle stesse motivazioni, ambientali, etiche o sanitarie

Ma negli ultimi tempi, dopo la “liberazione” cristiana – che tra i suoi precetti ha comunque mantenuto momenti di astinenza e digiuno in particolare durante la quaresima – si stanno sempre più diffondendo movimenti e stili di vita alimentari più o meno nuovi che escludono o proibiscono per motivi etici o di salute tutta una serie di cibi: il pescetarianismo, che estromette dalla dieta la carne a eccezione del pesce; il vegetarianisimo, che esclude qualsiasi carne animale; il veganismo, che esclude anche tutti i cibi di origine animale (latte, uova, miele); il fruttarismo, che invece ammette esclusivamente il consumo di frutta e ortaggi. Tutte queste correnti non sono nettamente distinte, spesso si sovrappongono e contengono a loro volta svariati sottogruppi (latto-vegetariani, crudisti vegani), ma generalmente si basano sulle stesse motivazioni che sono di rado strettamente religiose e molto più spesso sono ambientali, etiche o sanitarie.

In ogni caso, più che da preferenze di gusto o da scelte individuali, sembra che lo stile alimentare risponda, almeno per quanto riguarda i gruppi più militanti e radicali, a una logica religiosa o all’applicazione di concetti teologici secolarizzati: ci sono i tabù, la prospettiva della purificazione e della redenzione e il rafforzamento attorno a questi vincoli di un’identità collettiva che si distingue, e spesso si contrappone, agli altri. Una larga parte dei vegetariani e pressoché la totalità dei vegani non si limita ad astenersi dal consumare cibi che derivano dall’uccisione di animali o che, in qualche modo, ne abbiano causato la morte, ma si preoccupano anche del benessere animale, delle condizioni di vita degli animali nell’industria alimentare, dello sfruttamento degli animali in altri settori come quello tessile o della ricerca scientifica.

In questo senso, la scelta alimentare è il punto d’approdo di una visione del mondo e delle cose molto più radicale e costituisce un’identità che, con il processo di secolarizzazione e dopo il crollo delle ideologie, è più forte del credo religioso o dell’appartenenza politica. Anzi, per certi versi si può dire che le ha sostituite o inglobate.

Il Parlamento, dove il fronte animalista è molto attivo, ha recepito la direttiva europea sulla protezione degli animali in ambito scientifico, inserendo però una serie di restrizioni ulteriori che di fatto bloccherebbero la ricerca

Non è un caso se negli ultimi tempi le questioni riguardanti il cibo siano sempre di più al centro del dibattito politico e presenti nei programmi dei partiti. Si va dalla criminalizzazione di certi alimenti, come nel caso della proposta di Michela Vittoria Brambilla di Forza Italia, che chiede di punire con il carcere fino a due anni chi consuma carne di coniglio, all’obbligo da parte di tutte le mense e i ristoranti di offrire per legge menù vegani e vegetariani, come invece propone la dem Monica Cirinnà. Mirko Busto, militante vegano del M5s, è andato anche oltre, proponendo non solo l’obbligo di menu vegani e vegetariani – anche in ristoranti che magari fanno solo carne o non hanno clientela di questo tipo – per garantire la libertà di scelta dei consumatori, ma ha chiesto di imporre in tutte le mense pubbliche un menù esclusivamente vegetale almeno una volta a settimana, a discapito quindi della volontà e della libertà dei consumatori. Naturalmente le scelte alimentari si basano su imperativi etici – il rifiuto di qualsiasi tipo di sfruttamento degli animali – che spingono a legiferare anche oltre ciò che riguarda l’alimentazione. Un esempio è quello della ricerca scientifica, un settore che in Italia è in bilico per una legislazione animalista particolarmente ottusa. Il Parlamento, dove il fronte animalista è particolarmente attivo e politicamente ben rappresentato, ha recepito la direttiva europea sulla protezione degli animali in ambito scientifico ma, sull’onda di alcune campagne politico-mediatiche di tipo scandalistico, l’ha fatto inserendo una serie di restrizioni ulteriori rispetto a quelle europee che di fatto bloccherebbero la ricerca scientifica. Le limitazioni sono talmente assurde che l’Europa ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia e la stessa legge che le prevede contiene una moratoria per rimandarne l’entrata in vigore. Questa moratoria però è scaduta il 31 dicembre e così tutto il mondo della ricerca è dovuto scendere in piazza per chiedere a governo e Parlamento di intervenire in extremis con una nuova moratoria di almeno cinque anni per evitare il blocco di tutta la ricerca che non può fare a meno dei modelli animali (oncologia, malattie neurodegenerative, xenotrapianti, ricerche sulle sostanze d’abuso).

Come per quasi tutte le esperienze di tipo religioso, la scelta di vita vegetariana o animalista ha una dimensione individuale e una collettiva. Da un lato è la via per la purificazione e la redenzione personale, che consente l’elevazione morale e spirituale o, molto più convincente in una società secolarizzata, l’allungamento della vita terrena (viene sempre ricordato che i cibi di origine animale sono i più grandi killer della storia dell’umanità, all’origine delle più svariate malattie). Dall’altro lato c’è anche la prospettiva della salvezza dell’umanità e del pianeta, minacciati dall’industria agroalimentare, dall’inquinamento e dal riscaldamento globale prodotto dagli allevamenti intensivi. C’è quindi sia la dimensione del jihad interiore (lo sforzo individuale per contrastare le pulsioni negative) che il jihad esteriore, che ha una dimensione più politica e consiste nel combattere le forze del male.

La scelta di vita vegetariana o animalista ha una dimensione individuale e una collettiva. Da un lato è la via per la purificazione e la redenzione personale, dall’altro offre la prospettiva della salvezza dell’umanità e del pianeta

I regimi alimentari, più di quelli politici, vengono così visti come la causa – e di conseguenza la soluzione – di tutti i più gravi problemi dell’umanità: inquinamento, deforestazione, riscaldamento globale, guerre, povertà, fame e migrazioni. Un compendio di questa visione a una variabile del mondo l’ha data un paio di anni fa Alessandro Di Battista, esponente di spicco del Movimento 5 stelle. “Vi sto scrivendo dal Cairo. Sono in missione con la Commissione Affari Esteri – scriveva il deputato – Ebbene ho scoperto che alcuni scafisti che conducono i migranti verso le nostre coste sono ex pescatori costretti al ‘contrabbando di uomini’ dall'impoverimento del mare egizio. Tale impoverimento è anche dovuto a certe direttive della Ue”. Questo è un esempio “che dimostra quanto le abitudini alimentari producano problemi sociali, economici o addirittura geopolitici”. Di Battista passa a elencarli, partendo proprio dalle migrazioni: “Le mono-coltivazioni di cereali rivolte agli allevamenti intensivi sono una delle cause dell'abbandono delle campagne da parte dei contadini che si riversano nelle periferie degradate delle città per poi fuggire direzione Ue o Usa. Ci avevate mai pensato?”. E poi il climate change: “Avete mai pensato che gli allevamenti intensivi di bovini sono responsabili dell'effetto serra e di quei cambiamenti climatici che producono siccità e desertificazione ovvero cause dell'immigrazione clandestina?”. E poi fame: “Avete mai pensato a quanto il consumo occidentale di carne abbia spinto classi dirigenti africane a disincentivare l’agricoltura di sussistenza la cui perdita causa povertà, altra responsabile dell'immigrazione clandestina?”. E guerre: “Avete mai pensato che molte guerre vengono combattute per il rifornimento idrico fondamentale per l'industria della carne?”. La salvezza del mondo dipende quindi esclusivamente da cosa mettiamo a tavola e sotto i denti: “Ebbene – conclude Di Battista – la prosperità potrà esserci solo attraverso un nuovo (o forse antico) rapporto con la terra e una nuova (o forse antica) alimentazione basata soprattutto su cereali, legumi, frutta e verdura. Mangiare meno carne è una scelta politica che ognuno di noi deve fare”. Convertitevi!

Gli imperativi categorici alla base delle scelte alimentari hanno portato per forza di cose alla nascita di certificazioni e bollini, che garantiscono sulla conformità dei prodotti rispetto sia al contenuto dei prodotti, sia al procedimento agricolo o tecnologico attraverso cui sono stati ottenuti. Esattamente allo stesso modo delle religioni. Così come esistono i bollini kashèr e halal, che certificano la conformità dei prodotti (non solo alimentari, ma anche ad esempio cosmetici) rispetto ai precetti religiosi ebraici o islamici, sono nate le certificazioni vegetariane e vegane. Indicano non solo che i prodotti certificati non impiegano alimenti, ingredienti o coadiuvanti di origine animale, ma anche che nell’intero ciclo di produzione non vengono usati filtri, membrane o altri strumenti tecnologici di origine animale nelle attrezzature e nel materiale di confezionamento. Inoltre, in genere, i bollini vegan garantiscono anche che nei prodotti non ci sia presenza di Organismi geneticamente modificati (Ogm), che non hanno nulla a che fare con il mondo animale, ma che vengono ritenuti in qualche misura “innaturali”.

In generale il tema dei marchi di qualità, dei bollini d’origine e di denominazione è molto sentito nel settore alimentare in generale, i cui attori cercano di usare delle certificazioni o delle tutele legali per difendersi dalla concorrenza e rendersi riconoscibili ai consumatori. Ma in alcuni casi la rigidità e il sovrapporsi delle norme porta a veri e propri cortocircuiti logici e situazioni surreali. E’ il caso ad esempio del “Consorzio focaccia di Recco” che, per tutelare i produttori dalla concorrenza, ha preteso un rigido disciplinare europeo che consente di chiamare con il nome originale solo le focacce preparate, servite e vendute all’interno del consorzio, un piccolo territorio appartenente a pochi comuni. Vincoli così stringenti sono serviti a bloccare la concorrenza, ma hanno creato una gabbia che impedisce di esportare il prodotto. Dell’ottusità di un disciplinare così dettagliato e protezionista se ne sono accorti gli stessi produttori del Consorzio di tutela della focaccia di Recco quando, in maniera un po’ fantozziana, sono stati multati a Milano per essersi messi a vendere la “focaccia di Recco” fuori dal territorio previsto dal disciplinare, violando così il regolamento che essi stessi avevano preteso.

La disputa paradossale tra produttori di carne e vegani. I primi, insicuri, temono che il consumatore non distingua una bistecca di vitello da una di seitan. Gli altri, per rendere i loro prodotti più attraenti, li chiamano con i nomi di quelli a base di carne

La discussione sulle leggi e sulle regole per la denominazione degli alimenti – che generalmente riguarda le guerre commerciali tra paesi per tutelare il nome di specifici prodotti da imitazioni straniere – si è spostata proprio ultimamente nello scontro etico-commerciale tra carnivori e vegani, toccando vette insuperabili di surrealismo. Come tutti notano andando al supermercato o in qualsiasi altro ristorante, i vegetariani e i vegani adoperano per le loro pietanze i nomi di piatti che provengono dalla tradizione carnivora: ci sono cosi gli hamburger di soia, le cotolette vegetali, gli hot dog veg, i formaggi di tofu, la carbonara vegana, le bistecche di seitan e così via. Come ha scritto recentemente la Stampa, l’associazione europea che rappresenta l’industria della trasformazione della carne (Clitravi) sta facendo pressioni in sede europea per spingere la Commissione a impedire che “prodotti che vengono definiti come “sostitutivi” dei prodotti di carne e promossi come se fossero un’alternativa eco-friendly a quelli della denominazione, anche se poi la descrizione degli ingredienti è totalmente diversa”. In pratica, i produttori di carne ritengono di essere discriminati dal lassismo europeo e chiedono delle norme che definiscano in maniera dettagliata gli standard per la denominazione, allo stesso modo di ciò che avviene con il miele, i latticini e il latte. Esiste infatti un regolamento europeo che impedisce a tutte le bevande a base di legumi o cereali che i vegani usano in sostituzione del latte vaccino (latte di soia, latte di riso, etc) di chiamarsi “latte”. (“Il ‘latte’ è esclusivamente il prodotto della secrezione mammaria normale, ottenuto mediante una o più mungiture, senza alcuna aggiunta o sottrazione”, recita il regolamento).

La disputa tra produttori di carne e vegani è doppiamente paradossale. Da un lato è come se i produttori di carne temessero che il consumatore possa realmente non essere in grado di distinguere una bistecca di vitello da una di seitan o un salame di cinghiale da uno di tofu e quindi, implicitamente, affermassero che sono molto simili. Dall’altro emerge l’incredibile contraddizione dei vegetariani e dei vegani che, per rendere i loro prodotti più attraenti e farli apparire come gustosi e nutrienti, chiamano le loro pietanze con i nomi di quelle a base di carne, che invece dovrebbero per loro evocare violenza, sfruttamento, sopraffazione e morte. Non a caso, in situazioni analoghe, molte delle aziende di certificazione halal non appongono il bollino a prodotti come il vino o la birra analcolica, perché ritengono importante per la certificazione non solo la conformità materiale e molecolare del prodotto rispetto ai precetti islamici, ma anche la conformità etica del messaggio.

Le mode e le richieste del mercato verso cibi considerati “naturali” e “genuini” e verso metodi di coltivazione sostenibili, “senza chimica” e in armonia con la natura e il creato, portano in alcuni casi anche a forme di vero e proprio sincretismo agricolo-alimentare, come si può notare dalla nascita delle prime aziende biodinamiche e vegane. L’agricoltura biodinamica è un metodo di coltivazione inventato nei primi decenni del Novecento da un filosofo austriaco, Rudolf Steiner, che si basa su concezioni esoteriche e spiritualiste e punta a mettere in connessione le forze cosmiche e le energie astrali con le piante attraverso alcuni preparati usati durante la coltivazione. Il problema è che questo tipo di agricoltura, per certi versi simile a quella biologica, è incompatibile col veganismo visto che tra i preparati obbligatori da usare per ottenere la certificazione ce ne sono alcuni che prevedono l’uso in dosi omeopatiche di parti animali come corni di vacca riempiti di letame, oppure vesciche di cervo maschio riempite di fiori. Ma per quanto inconciliabili, il filone biodinamico e quello vegano, per una serie di considerazioni sulla spiritualità dell’uomo e una simile impronta naturalistica, interessano la stessa fetta di mercato e così ci sono aziende che hanno iniziato a cercare di far convivere i due filoni sostituendo, quando è possibile, nei rituali biodinamici le parti animali e invece, quando non lo è, utilizzando le parti necessarie di animali deceduti di morte naturale. Ma in molti casi, vuoi per la gran quantità di corna di vacca da utilizzare e vuoi per l’evidente difficoltà di trovare un cervo morto per cause naturali, si fanno degli strappi alla regola.

Al di là della tendenza a disegnarsi la propria religione alimentare – eliminando alimenti considerati dannati (l’olio di palma, il glutine, il glutammato, il latte, gli Ogm) oppure aggiungendo quelli ritenuti miracolistici (bacche di goji, semi di chia, quinoa, maca o altri cibi per lo più esotici) – ciò che accomuna il modo attraverso cui la nostra società parla del cibo e dell’agricoltura, è una forma di neopaganesimo che, come scrive il ricercatore e divulgatore scientifico Roberto Defez, professa il dogma “è buono perché è naturale”. Questa concezione non appartiene solo ai movimenti come Slow Food che predicano il ritorno a un’agricoltura di sussistenza, quasi autarchica, che faccia a meno della maggiore produttività garantita dalla chimica e della genetica, precedente alla Rivoluzione verde e a quelle industriali (non a caso la rete mondiale di Slow Food contro l’agricoltura intensiva si chiama Terra madre), ma è sposata anche dalla stessa industria alimentare, che usa come principale strumento di marketing il “naturale” o il “fatto come una volta”.

Non c’è nulla di nuovo in un atteggiamento del genere. E’ ricorrente per le società ricche e urbanizzate la sensazione di aver perso l’antico legame con la terra, e con esso i valori più autentici della società contadina. Sull’onda di queste idee, ispirate all’epoca dal mito russoviano del “buon selvaggio” corrotto dalla civilizzazione, nella Francia prerivoluzionaria la regina Maria Antonietta si fece costruire nella reggia di Versailles l’Hameau de la Reine, una fattoria in cui la regina e le sue dame di compagnia potevano vivere alla contadina, mungendo le mucche, coltivando ortaggi e cogliendo uova fresche. Per certi versi ne è una simile riproposizione il “White House vegetable garden”, l’orto voluto da Michelle Obama all’interno della Casa Bianca e coltivato in maniera biologica e sostenibile. Tutti abbiamo nostalgia dei bei tempi andati, del cibo genuino di una volta, perché per fortuna nessuno di noi sa o può ricordare che il cibo “naturale” era pessimo, le verdure amare, la carne fresca maleodorante, il pesce puzzava subito, il latte era acido e le uova marcivano ed era facilissimo sia ammalarsi per mancanza di cibo che per intossicazione alimentari. E questa nostalgia per un paradiso alimentare perduto (e mai esistito), rientra proprio all’interno di una visione religiosa e creazionista di ciò che mangiamo, quella che ci fa ritenere che ciò di cui ci nutriamo sia “naturale”, sia cioè sempre stato così. Ma in realtà, a parte qualche bacca o frutto selvatico, niente di tutto quello che troviamo sui banchi del mercato si trova in natura: tutto è stato manipolato e inventato dall’uomo e niente sopravviverebbe in natura senza il continuo intervento dell’uomo. La Natura non ci ha regalato niente, è stato l’uomo che nel corso dei millenni attraverso il lavoro e la fortuna e dopo aver sofferto malnutrizione, avvelenamenti e carestie ha selezionato le piante e i frutti per renderli più grandi, più dolci, succosi, produttivi, spogliandoli di ogni difesa: “Le piante che mangiamo sono l’opposto di quello che avrebbe selezionato l’evoluzione naturale – scrive Defez – sono piante selezionate dal predatore (noi), di cui mangiamo i figli (i semi). E’ come se avessimo selezionato dei topi perché saltino in bocca ai gatti: niente di più innaturale e opposto alla selezione della specie”.

E questo perché è proprio l’agricoltura a essere “innaturale”, che infatti, a differenza di quanto siamo portati a pensare, è un’attività abbastanza recente nella storia umana: se si confrontano i 150 mila anni dalla comparsa dell’uomo sul pianeta a una giornata, è solo nell’ultima ora e mezza che gli esseri umani – prima esclusivamente cacciatori e raccoglitori – hanno iniziato a coltivare la terra. Vuol dire che l’agricoltura stessa non è affatto un’attività “naturale”, ma figlia dell’applicazione più o meno consapevole di conoscenze fisiche, chimiche, genetiche e biologiche: “La terra arata è un paesaggio tecnologico oltre che biologico”, ha scritto Tom Standage. Produrre una pagnotta di pane è naturale come fare un microchip, costruire un grattacielo o mandare alle stampe un giornale. E questo è sempre più evidente per le moderne tecniche agricole, che prevedono l’uso di sensori a terra, stazioni meteorologiche, sensori di caratterizzazione del suolo, rilevamenti satellitari, mappature attraverso i droni per calibrare le dosi di acqua, fertilizzanti e pesticidi sulle reali necessità degli appezzamenti o della singola pianta. Tutto per aumentare le rese riducendo i consumi, per rendere l’agricoltura più produttiva e sostenibile a livello ambientale. Altro che le illusioni passatiste di chi vuole riconvertire tutta la produzione agricola al metodo “biologico” – che attualmente copre appena il 3 per cento dei consumi alimentari degli italiani (più ricchi) – quando nel mondo almeno 2 miliardi di persone non avrebbero da mangiare se si smettesse di utilizzare i fertilizzanti di sintesi.

“Produrre una pagnotta di pane è naturale come fare un microchip. (…) La semplice verità è che l’agricoltura è profondamente innaturale. Ha cambiato il mondo e ha influenzato l’ambiente più di qualsiasi altra attività umana”

Naturalmente in una società ricca e liberale è giusto e doveroso che ognuno sia libero di scegliere il regime alimentare che preferisce sulla base delle motivazioni etiche o religiose in cui crede, ma diventa preoccupante se chi crede in “Bio onnipotente”, da minoranza che richiede spazi di libertà, si trasforma in movimento organizzato che impone per gli altri limiti e divieti alla ricerca scientifica, all’attività economica e alle applicazioni tecnologiche. Non solo perché è un atteggiamento che non rispetta le libertà altrui, ma soprattutto perché è il frutto avvelenato di un’ideologia falsa che avrebbe impedito lo sviluppo e l’abbondanza di cui tutti godiamo. Nella sua “Storia commestibile dell’umanità” Tom Standage, parlando delle irrazionali paure nei confronti delle moderne biotecnologie, ricorda che “quest’opera di ingegneria genetica è solo l’ultima espressione di una tecnica che risale a più di diecimila anni fa. Il mais resistente agli erbicidi non esiste in natura, d’accordo, ma del resto neppure il mais. La semplice verità è che l’agricoltura è profondamente innaturale. Ha cambiato il mondo e ha influenzato l’ambiente più di qualsiasi altra attività umana. Ha causato un’estesa deforestazione, in alcuni casi una distruzione ambientale, lo spostamento di flora e fauna selvatica e il trasferimento di piante e animali a migliaia di chilometri dai loro habitat originari. Sfrutta la modificazione genetica di piante e animali per creare mutanti mostruosi che non esistono in natura e che spesso non sanno sopravvivere senza l’intervento dell’uomo”. Insomma, viste le discussioni teologiche sulla purezza genetica dei semi e sulla contaminazione chimica della Natura da parte dell’uomo, conclude Standage: “Se venisse inventata oggi, l’agricoltura sarebbe vietata”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali