Il concerto al teatro Bataclan di Parigi prima del massacro a opera dell’Isis. Muray aveva previsto l’odio islamista per l’“Homo festivus”

Il ventre molle

Giulio Meotti
Dalle Torri gemelle al Bataclan, il jihad è solo una distrazione per “l’occidente in bermuda”. In libreria il pamphlet di Muray. Houellebecq lo considera “uno dei più grandi scrittori del XX secolo”. René Girard lo chiamò a insegnare a Stanford. 

Il libro termina con un paradosso. Un appello rivolto ai terroristi islamici che hanno appena distrutto le Torri Gemelle: “Ci batteremo palmo a palmo, metro per metro, minuto per minuto. Ci batteremo. Ci batteremo per tutto, per difendere parole e vite senza senso. Ci batteremo per l’ordine mondiale caritatevole e per la movida notturna. Ci batteremo per la vita sempre al top, e per l’arte alternativa. Lotteremo per i tour operator, per le compagnie aeree, per le catene alberghiere, per i fornitori di servizi, per le pagine web e le offerte a prezzo bloccato. Lotteremo in favore del riscaldamento globale, per la crescita del livello del mare, per ridurre con misure draconiane le emissioni di carbonio, in favore di tutte le catastrofi e per tutti i modi possibili di limitarne l’impatto. Ci batteremo per un millennio di tutti e di nessuno, per le navi che volano, per la pillola della vita eterna, per gli scienziati pazzi che vogliono clonare il mondo e per un’opposizione ferma ai loro oscuri disegni.

 

Ci batteremo per le comunità comunitarie, per le tribù tribali, per i rivendicatori rivendicanti e per tutti gli studenti di ribellione ben più bravi dei vostri studenti di religione. Ci batteremo fino all’ultimo per andare avanti, fare cose, vedere gente, cambiare, avere progetti. Ci batteremo per i nostri bimbi sovrani e perché abbiano libero accesso ai servizi culturali. Ci batteremo per le nostre grandi battaglie, per la parità paritaria, per la resipiscenza resipiscente e per il controllo delle variazioni di registro linguistico. Ci batteremo in nome del nostro unico Dio, che ci è apparso nella forma di un riflettore puntato su un set televisivo. Ci batteremo per la libertà di girare in monopattino senza secondi né primi fini. Saremo pronti a farci tagliare a pezzi per la salvaguardia e la tutela dei nostri staff di sostegno medico-psichiatrico di emergenza. Ci batteremo senza fine perché la fine c’è già stata, ma non ce ne siamo accorti. Ci batteremo per il gusto di aver dimenticato quello che abbiamo dimenticato. Ci batteremo per seguire il gregge sempre dove va il vento. Ci batteremo per la soppressione del linguaggio articolato. Ci batteremo. E vinceremo. Eccome se vinceremo. Perché i più morti siamo noi”.

 

Questo canto di lutto, ironico e grottesco, è il finale di Cari jihadisti del grande scrittore e polemista francese Philip Muray, che arriva in Italia per la cura delle Miraggio Edizioni (traduzione dall’edizione francese Fayard di Francesca Lorandini e Olivier Maillart). Muray aveva pubblicato in Francia, tra gli altri titoli, Canto plurale (Gallimard, 1973), Jubila (Seuil, 1976), Posterità (Grasset, 1991), Si chiude (Les Belles Lettres, 1997). Prima di morire, dieci anni fa, per un cancro all’età di sessant’anni. Cari jihadisti dice in sostanza: l’11 settembre sono gli elefanti che entrano in un negozio di porcellane, i cui proprietari hanno già distrutto tutto. In altre parole, l’occidente non ha bisogno di nemici, ha distrutto se stesso molto bene rinunciando all’eredità della modernità e della propria tradizione. Muray non aveva nulla del trombone: era in guerra contro il suo tempo, ma non aveva l’ambizione della riforma. Aveva un’ossessione: quella che il suo tempo riconoscesse i propri crimini.

 

Dopo i quattro romanzi, negli anni Novanta Muray era assurto alle cronache per la pubblicazione di testi contro le modalità contemporanee di vivere e di pensare, diventando uno dei migliori saggisti francesi, miscelando l’eleganza spensierata e una malinconia unica. Gli obiettivi di Muray erano molteplici: i “bobos” borghesi e bohémien, la femminilizzazione, lo sviluppo dei diritti della società, il Gay Pride, la teleterapia, l’Homo festivus che “vive in un parco di divertimenti permanente”. In breve, Muray aveva in odio lo spettacolo della buona coscienza, che demoliva con il suo virtuosismo loquace, l’aggressività ludica, il disagio esistenziale. Muray era l’uomo dei Lumi che ne osservava l’offuscamento. Philippe Muray aveva dedicato la sua tesi di laurea a Léon Bloy e aveva firmato il suo primo romanzo nel 1968 per Flammarion. Poi, nella sua vita entrò Céline. E all’autore del Viaggio al termine della notte dedicò un saggio nel 1981.

 


Philippe Muray, scomparso dieci anni fa e ora tradotto in italiano


 

Muray rispose quindi all’invito di René Girard, il suo maestro e ispiratore, di andare a tenere un ciclo di lezioni alla Stanford University negli Stati Uniti. Rimase un semestre. E fu sconvolto dal moralismo americano, lui che aveva messo in ridicolo la nostra epoca di “comunicazione totale” che sfociava in un autismo generalizzato. Jean Baudrillard ha scritto di Muray che con lui è scomparso “uno dei pochi, pochissimi cospiratori di questa resistenza sotterranea contro l’‘Impero del Bene’”. In quest’opera, datata 1991, l’anno fatale, Murray scrive: “Il telecollettivismo filantropico è l’erede perfetto e pacifico del dispotismo comunista, tutto un dispiegamento virtuoso di letteratura edificante, con tanto di pastorali alla Aragon e di idilli alla Éluard. I cervelli sono kolchoz. L’Impero del Bene attinge a piene mani da quell’antica utopia: burocrazia, delazione, esaltazione appassionata della giovinezza, smaterializzazione del pensiero, abolizione dello spirito critico, addestramento osceno delle masse, annientamento della storia a forza di attualizzazioni, appello kitsch al sentimento contro la ragione, odio del passato, uniformazione degli stili di vita.

 

E’ successo tutto in fretta, estremamente in fretta. La Milizia delle Immagini occupa il campo a suon di sorrisi e anche gli ultimi focolai di resistenza si stanno disperdendo. Sono stati abrogati i capitoli più risibili del programma delle grandi ideologie collettiviste (la dittatura del proletariato, in primis), ma il cuore del progetto rimane lì, gregario, nessun rischio che scompaia. Il trionfo dell’individualismo è un grande bluff, è una di quelle tante amene verità giornalistico sociologiche di consolazione, quelle che ci sciroppano quotidianamente in un mondo in cui ogni singolarità, ogni particolarità è in via di estinzione. Individuo dove? Individuo quando? In quale angolo recondito del nostro ridicolo globo trovarlo?”.

 

Murray si era inimicato tanti amici. Ruppe con Philippe Sollers e il sodalizio di Tel Quel. Ruppe con la squadra di critici dell’arte di Jean Clair. Lo storico delle idee Philippe Raynaud ha scritto che Muray è un antimoderno, non un reazionario o un conservatore. Michel Houellebecq lo considerava una ispirazione. “Philippe è ovviamente uno dei più grandi scrittori del XX secolo”, dirà dopo la sua morte. “Voi avete i vostri mullah orbi”, scrive nel libro appena uscito in Italia e rivolgendosi agli islamisti. “L’islam, chissà perché, ne è pieno, e spesso sono i vostri predicatori più toccanti, le guide spirituali o i guerrieri con maggior seguito. Ma non crediate che la cosa ci impressioni: noi, da par nostro, siamo tutti sordi; e ci impegniamo a esserlo giorno dopo giorno sempre di più”. Ai musulmani jihadisti, Muray scrive che l’uomo occidente vuole soltanto “godersela per l’eternità”. Parla della “confusione baldanzosa che inaugura il nostro regno profilattico, eugenista e igienista, il perfetto equivalente di quei grandi terrori collettivi che ci hanno spinto a eliminare ciò che non ci piace: dai bovini accusati di febbre aftosa a quegli strani individui non ancora convertiti al nuovo ordine matriarcale, a cui abbiamo affibbiato il nome di democrazia, passando per i vostri leader trogloditi, istrioni odiosi nel fondo delle loro caverne, che non hanno manco il vantaggio di essere platoniche”.

 

L’11 settembre 2001 ha interrotto con una violenza inaccettabile i festeggiamenti occidentali. “Diciamolo chiaramente: ci avete disturbato. Capirete anche voi che la cosa non sia stata gradita. E che vogliamo riprendere al più presto il nostro tran tran quotidiano”. Gli islamisti credono di mettere in scacco un’intera civiltà, “le sue profonde tendenze secolarizzanti, seducenti, desacralizzanti, oscenizzanti e mercantilizzanti. Ci dispiace, non è proprio così. Mirate al mulino a vento sbagliato. Qui non c’è nessuna civiltà”. Questa civiltà che chiamiamo “occidente (e di cui mantiene ormai solo il nome) è incompatibile con la dignità umana più elementare. Ecco perché la difenderemo a spada tratta. La vostra controffensiva non farà che alimentare la nostra determinazione”.

 

Muray paragona il mondo dell’11 settembre a Costantinopoli nel 1453: “Una leggenda racconta che nel, appena prima della caduta, si discutesse del sesso degli angeli. Lo si faceva anche qui da noi, prima dei vostri attacchi. Sesso, in realtà, non ce n’era da nessuna parte, naturalmente, ed è proprio per questo che se ne parlava. Eravamo ammaliati dalle performance da caserma dell’esibizionista Catherine Millet. Ma noi non siamo a Costantinopoli, e i nostri dibattiti sul sesso degli angeli, benché abbiano preceduto o addirittura annunciato la catastrofe, servono solo ad accompagnare l’estensione illimitata della nostra egemonia light, garantita senza libido”. Mentre il World Trade Center bruciava a tremila gradi e si riempivano pagine e pagine della stampa mondiale, “in un altro dei nostri maggiori organi di stampa sprizzava gioia da tutti i pori una giornalista specializzata nelle innovazioni socio-ambientali che contribuiscono al nuovo addestramento planetario. E ci faceva il piacere di informarci che niente è perduto. ‘La giustizia dà vita all’omoparentalità’ affermava entusiasta, a buon diritto e con una prontezza encomiabile”.

 

I jihadisti credevano quel giorno che l’occidente fosse debole dietro una facciata di potenza economico-militare. “Cari jihadisti, dovete mettervi in testa una verità senza precedenti: tutte le energie rimaste al nostro continente lavorano giorno e notte alla disfatta di ciò che resta dell’umano; e chi vorrà inavvertitamente occuparsi di altro, avrà filo da torcere”. I jihadisti secondo Muray sarebbero stati attratti dalle delizie dell’occidente: “Manifesterete anche voi per gli incroci di culture ibridate. Danzerete davanti ai Rembrandt. Frequenterete spazi artistici senza frontiere. Entusiasti, firmerete anche voi petizioni per un maggior coinvolgimento del maschio nei lavori domestici. Potrete beneficiare del bonus cultura. Volendo, potrete rivendicare la vostra bisessualità o il continente inesplorato della vostra identità di genere mista. Studierete il senso della giustizia nei primati, la trasmissione dell’informazione nei delfini e la percezione dei valori etici fondamentali nelle femmine dei bonobo. Riuscire

 

te a dimostrare che i mandrilli hanno una conoscenza intuitiva dell’imperativo categorico kantiano? Lo speriamo vivamente”. Nel libro, Muray attacca Salman Rushdie: “Si è premurato di dichiarare che i vostri uccellacci del malaugurio in quel gesto kamikaze contro due edifici simbolici hanno voluto annientare tutte le cose buone dell’occidente. E di queste buone cose occidentali ha compilato una lista che includeva, indistintamente: la libertà di espressione, il multipartitismo, gli omosessuali, i diritti delle donne, la minigonna, la teoria dell’evoluzione, il sesso, i baci in pubblico, i sandwich, il bacon, le divergenze di vedute, la moda d’avanguardia, la libertà di pensiero ecc…”. C’era una volta “l’occidente giudaico-cristiano” che però non ha “niente a che vedere con l’occidente di oggi, che è la vostra bestia nera, l’occidente in fase terminale”. Se la prende con Francis Fukuyama: “Non c’è spauracchio più efficace di questo personaggio che continua a ripetere che siamo nel migliore dei mondi possibili e che tutta l’umanità, piano piano, si convertirà alla vie en rose dell’occidente commerciale e alla sua democrazia liberale. Un tale pensatore espiatorio è una vera benedizione. Nel cuore della nostra fiaba cibernetica, è un immenso piacere dire no al sogno che quel tizio ci mette davanti agli occhi, e passare così per realisti lucidi e coraggiosi”.

 

Se la prende con il direttore di Libération, Laurent Joffrin: “‘La stagione dell’ironia è finita’, proclamava uno dei nostri migliori ventriloqui, l’ottimo Joffrin. E aggiungeva: ‘La Storia è tornata alla carica, con il suo seguito di sofferenza e di sangue’. Notate bene, cari jihadisti, che quando la Storia torna alla carica dalla finestra, l’ironia deve prendere la porta, e deve farlo in fretta. Fosse sempre stato così, non avremmo potuto sentir riecheggiare la risata di Rabelais, di Cervantes o di Molière, che invece risuonava benissimo in altre epoche, quelle sì storiche per davvero”. Ai jihadisti, Muray oppone “l’ira dell’uomo in bermuda”, “la collera del villeggiante alla guida del suo camper”. Il peggior tipo di “cane infedele”, l’Homo festivus, seduto nei ristoranti e nei teatri di Parigi un anno fa. Philippe Muray aveva capito tutto: che i jihadisti vogliono distruggere il ventre molle, un occidente stanco di essere se stesso e che cerca la redenzione nel piacere e nella vanità. E’ quella che Libération, dopo la strage del 13 novembre, ha messo in copertina sotto il titolo di “generazione Bataclan”. Génération amour.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.