Alberto Nagel con la moglie: Roberta Furcolo, ex dirigente di Banca Intesa, lavora oggi nel gruppo assicurativo Aon e si è trasferita a Londra con i due figli

Alberto Nagel, l'uomo del salotto accanto

Stefano Cingolani
Un ritratto del capo di Mediobanca. Una vita fatta di duelli, l’ultimo dei quali con Urbano Cairo per il controllo del Corriere della Sera

Che cosa c’entra Alberto Nagel con Harry Bailey? Apparentemente proprio nulla. Il protagonista de “L’impossibilità di essere normale” (interpretato da Elliott Gould), film americano del 1970 sulla contestazione giovanile e l’integrazione nel sistema, è quanto di più lontano da un rampollo bene (vecchia aristocrazia decaduta, antifascista e vicina al Partito d’Azione) il quale, appena uscito dalla Bocconi, entra subito in Mediobanca. E c’è da dubitare che il giovane già avviato all’alta finanza avrebbe mollato l’università come fece Bailey-Gould pur di non accettare la strampalata interpretazione omosessuale del “Grande Gatsby” alla quale voleva costringerlo il professore. Nemmeno la moglie, Roberta Furcolo, assomiglia a Jan (interpretata da Candice Bergen), la ragazza che vuole la fede al dito ma poi lascia un borghesissimo medico per tornare donna in rivolta. Non perché la signora Nagel non sia di gentile aspetto e pronta parlantina, ma perché ha scelto fin dall’inizio di conciliare carriera e famiglia. Ex dirigente di Banca Intesa, lavora oggi al gruppo assicurativo Aon e si è trasferita a Londra con i due figli. Chissà dove andrà se vince la Brexit. Appassionata di politica e tifosa di Mario Monti, quando il professore diventa capo del governo lo apostrofa chiedendogli cosa farà contro la casta (quella dei politici, of course). Tutto, insomma, sembra indebolire il nostro parallelo cinematografico. Eppure anche Alberto Nagel sta conducendo un’angosciosa lotta per non mettersi in riga, per difendere l’unicità, l’eccezione sua e di Mediobanca che guida tra continui sobbalzi.

 

In molti hanno cercato di normalizzare il centauro creato da Enrico Cuccia. Ci ha provato con insistenza Romano Prodi, lo ha tentato a più riprese Mario Draghi fin da quando, in qualità di direttore generale del Tesoro incaricato delle privatizzazioni, nel 1993 respinse il progetto acchiappatutto che gli aveva presentato Cuccia e aprì le porte a ogni banca italiana, ma soprattutto a Goldman Sachs, Morgan Stanley & Co. “Noi sul Britannia non c’eravamo”, commentò piccato Vincenzo Maranghi, alludendo al presunto complotto della finanza anglosassone. Draghi stava per diventare presidente di Mediobanca nel 2002, ma è stato stoppato. Nominato governatore della Banca d’Italia, ha chiesto che la banca d’affari lasciasse il labirinto mediatico-finanziario in cui si era infilata. Adesso la spinta viene dalle rigide regole della Bce, perché avere in pancia partecipazioni rilevanti in gruppi industriali consuma capitale e aumenta il rischio sistemico.

 

Un tempo Mediobanca racchiudeva in portafoglio tutto il capitalismo senza capitali. Dopo l’uscita da Telecom Italia le rimangono fondamentalmente le Assicurazioni Generali e Rcs. Ma Nagel non ha intenzione di allentare la presa. Al Leone di Trieste è entrato in contrasto con l’amministratore delegato Mario Greco. Al suo posto è andato Philippe Donnet, francese, già capo di Generali Italia, che si è fatto le ossa ad Axa ed è vicino a Vincent Bolloré, diventato ormai il socio forte (persino ingombrante) di Mediobanca. Evocando così lo spettro che “la mucca dalle cento mammelle” (copyright di Cesare Geronzi) finisca in mani transalpine. Quanto a Rcs, ebbene la battaglia di via Solferino assume il valore di una linea del Piave.

 

Lunedì partirà l’Offerta pubblica di acquisto della Rizzoli Corriere della Sera da parte della cordata costruita da Nagel e composta dal finanziere Andrea Bonomi, da Diego Della Valle, Carlo Cimbri per l’Unipol e Marco Tronchetti Provera per la Pirelli. Commenta un banchiere di lungo corso: “E’ il vecchio patto di sindacato, solo che adesso è a pagamento”, perché questa volta viene offerto denaro contante invece di un puro scambio di azioni, carta contro carta. L’Opa nasce per difendere quel che viene considerato l’ultimo salotto buono del potere economico-finanziario del nord con multiple proiezioni politiche. Sul fronte opposto c’è un editore cosiddetto puro come Urbano Cairo, messo in pista dalla Intesa Sanpaolo, anzi si dice da Giovanni Bazoli, proprio colui il quale ha costruito il gruppo bancario partendo dal salvataggio del Banco Ambrosiano. L’avvocato bresciano, avversario aperto e leale di Cuccia, ha sempre tenuto in palmo di mano il Corriere della Sera: lo ha offerto a Gianni Agnelli nel 1985 e ne ha seguito le sorti anche dopo la morte dell’Avvocato che dal suo letto di dolore glielo ha consegnato perché vegliasse sulla sua indipendenza. Almeno, così vuole la vulgata.

 

Mediobanca contro Intesa: si ripropone per molti versi l’antico duello tra i poteri forti che evoca quello tra cattolico-popolari e liberali massoni. In realtà, dietro la scelta di Nagel c’è lo sforzo per salvare se non la centralità che non esiste più, almeno l’influenza che porta affari, i quali a loro volta generano commissioni. Il bilancio ormai va messo insieme pezzo a pezzo, quasi giorno per giorno. La banca d’affari, infatti, ha perso l’alimento che l’aveva fatta crescere, cioè il flusso di denaro proveniente dalle tre banche dell’Iri sue azioniste: il Credito Italiano, la Banca Commerciale e il Banco di Roma. Mentre è finita anche quella domestica divisione del lavoro che affidava alla banca pubblica Imi il finanziamento della piccola industria lasciando la grande a Mediobanca.

 

La nidiata allevata da Cuccia e dal suo fido Vincenzino (così chiamava Maranghi anche se gli dava del lei) era ricca di talenti. C’erano Gerardo Braggiotti, figlio d’arte (il padre Enrico è stato presidente della Commerciale), e Matteo Arpe che poi risanerà la Banca di Roma per conto di Geronzi. C’era Renato Pagliaro, il preferito di Maranghi, e poi è arrivato Nagel, addetto alla segreteria particolare. La morte del fondatore nel 2000 apre un triennio turbolento. Le banche azioniste, soprattutto Unicredit e Banca di Roma, intendono riprendersi il proprio ruolo e Maranghi si fa custode testamentario di un’autonomia che prima nessuno osava mettere in dubbio. Lo scontro si conclude nel 2003 con le dimissioni del successore di Cuccia il quale impone una guida bicefala affidata a Pagliaro e Nagel, entrambi condirettori generali. L’anomalo assetto non dura, si oppone la stessa Banca d’Italia. E a quel punto si afferma Nagel come il vero capo azienda, rapido, manovriero e persino salottiero mentre Pagliaro, schivo e appartato, sembra aver assorbito le virtù dei suoi maestri, poco apprezzate nell’odierno teatro politico-mediatico. Dotati per il loro mestiere, lo esercitano in modo diverso. Si alleano per bilanciare Geronzi che diviene presidente nel 2007 dopo la fusione tra Unicredit e Capitalia. Quando il banchiere romano va alla presidenza delle Generali, la divisione del lavoro in Mediobanca diviene pressoché perfetta: Pagliaro presidente e Nagel amministratore delegato. Intanto, debbono fare i conti con una proprietà che è cambiata nel profondo.

 

Bolloré è entrato quasi in punta di piedi alla svolta del nuovo millennio, portato dal suo mentore Antoine Bernheim, ma a poco a poco, come suo costume, accumula un bel pacchetto azionario. Un giorno del marzo 2003 Geronzi riceve una telefonata da Palazzo Chigi: è Silvio Berlusconi che gli chiede di incontrare due amici. Arrivano in via Minghetti, il quartier generale romano di Capitalia, Tarak Ben Ammar e Bolloré il quale esordisce: “Davanti a lei c’è il proprietario del 20 per cento di Mediobanca”. Non è proprio così, ne possiede il 14 per cento insieme a una filiera francese che lo stesso Maranghi ha invitato con l’obiettivo di puntellare la sua posizione al vertice e di blindare le Generali, senza le quali Mediobanca vale ben poco. I suoi alleati transalpini pretendono la conferma di Bernheim a Trieste. Si apre un conflitto durissimo che porta alle dimissioni di Maranghi nell’aprile 2003 e a un assetto proprietario che assomiglia a un tricorno: da una parte i “foresti”, cioè i francesi, dall’altra gli industriali privati che facevano corona a Cuccia (“debitori di riferimento” li chiamava il banchiere Sergio Siglienti), in mezzo Unicredit e Capitalia (la Commerciale era stata assorbita da Intesa). Nel 2014 si forma un nuovo patto che vincola il 31 per cento del capitale con un’altra troika: Unicredit, Bolloré e Mediolanum. Perché nel frattempo nel salotto sono entrati anche i berlusconiani (Marina Berlusconi per Fininvest e Ennio Doris) che Cuccia e Maranghi avevano tenuto fuori.

 

Per resistere al timone ormai bisogna scivolare tra gli scogli e Nagel si dimostra abilissimo nell’arte della navigazione. Gli occorrono sostegni e li trova nel gruppo De Agostini che sempre in quel fatidico 2003 compra la Toro assicurazioni dalla Fiat per 2,38 miliardi. Nel 2006 la vende alle Generali per 3,82 miliardi e reinveste parte del ricavato nel Leone di Trieste. Regista è Mediobanca. Si stringe, così, un legame con Marco Drago, azionista e presidente della De Agostini e con Lorenzo Pellicioli, manager di punta del gruppo di Novara, “l’uomo che sa parlare ai salotti”, alleato nelle battaglie per il controllo della compagnia di assicurazioni, dalla defenestrazione di Geronzi dopo appena undici mesi, fino alla rottura con Greco.

 

La stessa soluzione del crac Ligresti evoca la strategia del ragno. Don Salvatore veniva utilizzato da Cuccia per parcheggiare pacchetti strategici (lo chiamavano il signor 5 per cento). Quando Maranghi gli affida la Fondiaria per fonderla con la Sai assicurazioni, fa il passo più lungo della gamba. I Ligresti, padre e figli, la “spolpano” diranno i magistrati, la crisi finanziaria ci mette il carico da undici così che nel 2012 arriva il fallimento definitivo. Mediobanca che vi aveva investito circa un miliardo e cento milioni di euro, rischia di essere travolta. Nagel, alla ricerca di una soluzione, tenta di concordare una buona uscita dei Ligresti. E registra i loro desiderata in un foglietto di carta scritto a mano, un papello, un pizzino come verrà chiamato. Scoppia un putiferio, interviene l’onnipresente magistratura; anche se sul piano legale finisce tutto in una bolla di sapone, il danno d’immagine, se non proprio reputazionale, resta. Nagel estrae dal cappello la Unipol che fa capo alla Lega Coop alla quale Mediobanca aveva prestato 300 milioni. Così si salva e la Fonsai passa alla compagnia che assicura le cooperative rosse, il suo capo Carlo Cimbri entra in Piazzetta Cuccia e in Via Solferino, si fonde un asse d’acciaio in barba ai francesi, perché Bolloré aveva tentato di far entrare in campo Groupama. Il chief executive officer vuol dimostrare chi comanda, anche se a caro prezzo. Intanto, Unipol allarga a sinistra una rete di sostegno che diventa davvero trasversale.

 

Nagel tesse la trama e la presenta come una barriera contro ogni assalto esterno. Lo dimostra il difficile rapporto con Geronzi (presidente dal 2007 al 2011) che pure non veniva da fuori, essendo stato azionista di riferimento nonché vicepresidente di Mediobanca. E lo testimonia anche il rinnovamento al vertice in vista di una eventuale successione. A fine 2013 viene assunto un banchiere che più lontano da Cuccia e Maranghi non si può. Si chiama Stefano Marsaglia, 58 anni, torinese domiciliato a Londra, giocatore di polo, moglie greca, proviene dalla Barclays e prima ha lavorato 17 anni dai Rothschild come numero uno per l’Italia dove ha curato molti affari tra i quali la fusione Unicredit-Capitalia o la vendita di Antonveneta al Monte dei Paschi di Siena. Marsaglia è considerato un “superbanker” e il nuovo uomo forte in Mediobanca.

 

L’ultimo alleato importante è Andrea Bonomi, nipote di Anna Bolchini, la sciura dei dané degli anni 60 e 70, figlio di Carlo, che venne disarcionato dalla sua compagnia Bi-Invest nel 1985 grazie a un colpo di mano anti Cuccia ordito dalla Montedison sotto la guida di Mario Schimberni, manager di orientamento socialista. Dopo anni di esilio tra Londra e New York, i Bonomi sono tornati a Piazza Affari e il fondo Investindustrial  è stato protagonista di colpi eccellenti (come la Ducati comprata e poi venduta alla Volkswagen). Nel 2011 Andrea viene convinto da Nagel a investire  nella Popolare di Milano per timore che la banca cada in mani ostili. Ma la sua presidenza dura solo tre anni e il tentativo di riprenderne il controllo nel marzo scorso non riesce. Adesso Bonomi si è fatto coinvolgere in una operazione ambiziosa: la conquista del Corriere della Sera, più croce che delizia per Mediobanca dopo l’uscita di Cesare Romiti nel 2004. I debiti, gli investimenti discutibili come l’acquisto della spagnola Recoletos in Spagna, i piani industriali che non funzionano, il tourbillon di manager senza successo da Vittorio Colao a Pietro Scott Jovane, la discesa in campo di John Elkann che parla della “nostra Rcs” e cambia il consiglio di amministrazione. Una catena di sbagli, fino all’improvviso abbandono. La Fiat, ormai Fca, vende tutto e passa la Stampa alla Repubblica. Un colpo di teatro che a Via Solferino e in Piazzetta Cuccia vivono come un colpo basso. La sfida di Cairo sostenuto da Intesa, poi, ha il sapore di una beffa anche perché l’editore di Alessandria nel 2013 aveva preso La7 da Telecom Italia per un solo milione di euro, contro il parere di Mediobanca.

 

Mentre Nagel scava l’ultima trincea, spunta un ulteriore tentativo di normalizzazione. In Unicredit si libera la poltrona del dimissionato Federico Ghizzoni. La candidatura del top manager di Piazzetta Cuccia si basa su un dato di fatto (Unicredit è ancora l’azionista numero uno) e su una ipotesi: la fusione tra la banca d’affari e la banca “sistemica”. Le nozze potrebbero consolidare il patrimonio e ampliare il raggio d’azione, rafforzando anche le Generali. Vedremo se Fabrizio Palenzona, vicepresidente per conto delle fondazioni piemontesi, Paolo Biasi a nome delle fondazioni venete (rientrato in gioco dopo un periodo di cincinnatiano esilio), Luca di Montezemolo anche lui vicepresidente fiduciario dello sceicco di Abu Dhabi e gli altri soci più o meno rilevanti riusciranno a mettersi d’accordo. Il tempo stringe, la Borsa ha picchiato duro. Il titolo valeva sei euro un anno fa e oggi supera di poco i due euro: quanta acqua è passata sotto i ponti dei Navigli leonardeschi dal 2007, quando Alessandro Profumo l’aveva portato addirittura a 38 euro. Ma se Nagel finisce nel salotto accanto e al suo posto va Marsaglia, Mediobanca diventerà davvero normale? Labor Tenax si legge sullo stemma di famiglia. Meditate gente, meditate.

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