Villa Malaparte a Capri, “una delle più strane case del mondo occidentale, secondo Bruce Chatwin

Citofonare Malaparte

Michele Masneri
Siamo entrati nella casa di Capri che l’autore della “Pelle” volle disegnare con il suo gusto e i suoi simboli. Vi affacciate dal piano terra e vi sembra di essere su un vascello fantasma.

"Pronto, casa Malaparte”, dice una governante gentile, al telefono, e poi viene giù alla scogliera, per prendere i bagagli, appena si scende dal gommone, per approdare a una delle case più famose d’Italia, forse del mondo.

 

Vicino ai Faraglioni, a Capri, casa rossa a scalinata, con quella vela bianca sopra, iconica tipo sneaker Nike. Casa chiusa, perché abitata dai proprietari, gli eredi Malaparte che si chiamano giustamente Suckert, com’era il vero cognome dell’autore de “La pelle” e “Kaputt”. Figlio di un tintore di stoffe sàssone trapiantato a Prato, Kurt Suckert prese poi quel nome d’arte, mentre “Il nero Suckert si usa ancora oggi nei tessuti”, dice Niccolò Rositani-Suckert, pronipote, tutore delle memorie di casa, e non solo.

 

Nipote della sorella di Malaparte, famiglia di scienziati, è avvocato, legale di Adelphi e di altre case editrici, ma soprattutto docente di Diritto d’autore al Politecnico di Milano, un ayatollah nella lotta contro il plagio, artistico e architettonico, contro lo sfruttamento che distrugge. Complice una somiglianza anche inquietante con l’antenato, difende lo scoglio di famiglia dalla società di massa.

 

Eccola qui: battelli e gozzi e panfili e traghetti passano sotto di noi, inquadrati nelle quattro finestre enormi e tutte diverse del salone immenso al primo piano, e si sente gracchiare negli altoparlanti “ecco la casa Malaparte, opera di Adalberto Libera, donata al governo cinese…”, e si vedono da quassù i braccini e braccetti con i loro smartphone puntati del turismo ferragostano. Il loro sogno sarebbe di venire fin quassù, probabilmente, e selfarvisi, e magari trovare quei cinesi che dovrebbero stare qua. Rositani-Suckert vorrebbe forse cannoneggiarli, invece, come i tanti che telefonano per venire su a vedere “la casa di ‘Alberto’ Libera”, cioè poi l’architetto eminente delle Poste romane di via Marmorata e del palazzo dei Congressi dell’Eur. Che non c’entra niente, non più dei cinesi, almeno.

 

E’ chiaro infatti che “questa non è una casa razionalista, semmai surrealista”, dice il padrone di casa, che non ne può più di questa storia. Frugando tra le carte, ecco prove e riprove che Malaparte, esemplare abbastanza unico di artista poliedrico italiano, scrittore e giornalista e sceneggiatore e pubblicitario e anche un po’ designer (forse per questa poliedricità rimosso, in un paese di conformisti), la sua casa se la fece tutta da sé: “Casa come me”, la chiamò, autoritratto abitativo ed estetico, e risultato meglio di tante archistar dell’epoca o di oggi.

 

Ecco dunque i complimenti di Aldo Morbelli, primario progettista littorio, “per le doti così rare in un non-architetto”; ecco il comune di Capri, che attesta non esservi mai stato alcun progetto di codesto Libera; ecco gli studi per la vela bianca sul tetto fatti da Uberto Bonetti, futurista viareggino e tecnico brillante che aveva coadiuvato Malaparte, che certifica: “Dietro vostro indirizzo estetico e costruttivo”. Ecco i disegni malapartiani della casa che cambia, con un iniziale ingresso alla base della celebre scalinata rastremata, omaggio alla chiesa di Lipari dove lo scrittore era stato esiliato da Mussolini.

 

E poi altri cambiamenti in corso d’opera: la casa che nasce bianca e poi diventa rossa. E, nell’articolo “Una casa tra Greco e Scirocco”, del 1940, ecco il rilievo architettonico e poetico d’autore: “Non solo la linea della casa, la sua architettura, ma i materiali con cui l’avrei costruita avrebbero dovuto essere intonati con quella natura selvaggia e delicata”. Anche scelte di campo: “Non mattoni, non cemento, ma pietra, soltanto pietra, e di quella del luogo, di cui è fatto il monte”. E infatti sotto l’intonaco, c’è pietra, e non cemento come si crede. “Fu con timore reverente” scrive sempre Malaparte, “che mi accinsi alla fatica, aiutato non da architetti o da ingegneri, ma da un semplice capomastro. La feci lunga, stretta dieci metri, lunga 54”.

 

Assai corte invece le pratiche amministrative, su cui permane il mistero: che fosse stato il vecchio senatore Agnelli ad agevolare i permessi per quello splendido abuso d’epoca, pur di levar di torno Malaparte alla nuora scalmanata Virginia al Forte dei Marmi; che fosse stato invece proprio Libera, architetto top di regime, ingaggiato per queste pratiche e poi dismesso (ci sono testimonianze di un celebre litigio in piazzetta; mentre Libera è provato che qui in cantiere non venne mai); che se ne fosse occupato Galeazzo Ciano ministro degli Esteri e amico (a cui pure non viene risparmiato nulla nelle pagine migliori e più romane di Kaputt). Comunque, si disintermediò molto.

 

Scartabellando negli archivi di casa vien fuori poi un romanzo catastale: che il terreno fu comprato nel 1938 con rogito di un notaio locale che si chiamava Carlo Caracciolo; che fu pagato con un mutuo Inpgi (la cassa dei giornalisti), e che i permessi vennero dati per una “villetta in armonia con l’architettura caprese, non visibile dal mare”, come dice l’atto comunale, mentre poi sorgerà questo Ufo sulla scogliera che diventa landmark isolano (“una delle più strane case del mondo occidentale”, secondo Bruce Chatwin).

 

Qui, nella casa surrealista (ma forse più espressionista) ci vive Rositani-Suckert, insieme al figlio Tommaso (in onore di Filippo Tommaso Marinetti) e alla moglie Alessia, che gestisce i diritti internazionali dell’opera di Malaparte (oggi, 30 paesi), e aggiunge dotazione genetica molto avvantaggiata a un luogo già esteticamente quasi insostenibile. “Una casa metaforica, da interpretare”, secondo Rositani-Suckert, “complessa come il ‘Finnegans Wake’ o l’‘Ulisse’”. Casa molto fotografata al cinema, dalla “Pelle” di Liliana Cavani al “Disprezzo” di Godard, e con tante simbologie; e però rimanendo alle planimetrie, ecco dunque al piano terra (si fa per dire, siamo scoscesi sul mare come su un vascello fantasma), nella parte sinistra della casa (il cervello?) vagamente tirolese, una sala da pranzo-stube da Neuschwanstein, “a ricordare la sua metà tedesca, e la sua esperienza negli Alpini”; e poi ecco quattro camere per gli ospiti, due a destra e due a sinistra, come celle francescane, o cabine di marinai, col legno grezzo a listoni per terra, e le stampe di cavalli – in cornici disegnate da sé – regalate a Kurt Suckert dalla corona di Svezia (saranno poi i cavalli molto cinematografici del re Eugenio, sempre in “Kaputt”).

 

E addirittura l’emozione di una valigia veramente malapartiana, forse usata nei suoi viaggi cinesi o etiopi, come comodino. Lino giallo per i copriletti e per le tende, e maioliche bianche e nere con una piccola rosellina e una M di Malaparte nei corridoi. Salendo uno scalone di legno, ecco poi al primo piano il salone enorme con le quattro finestre irregolari tutto-vetro, senza montanti, e basculanti, invenzione del padrone di casa; e un camino che pare disegnato da Dalí, con vetro per “vedere il mare” come dice Jack Palance a Brigitte Bardot nel “Disprezzo”, e pavimento in pietra serena.

 

Rispetto al film, manca la grande “Danza” di Pericle Fazzini, smontata e restaurata e da rimontare, su una parete, ma invece troneggiano gli arredi brutalisti sempre by Malaparte, ripristinati: un grande tavolo di legno con colonne tortili tipo Borromini a San Pietro; una consolle mossa, da onda marina o cavallone, sempre di legno, ma su colonne d’arenaria; e una panca con le medesime colonne, che però nascondono all’interno un water e un bidet, e qui si è nel più puro ready made. I divani sono stati riportati al bianco, in un’opera filologica totale (c’è anche un golden retriever che si chiama Febo come il cane dello scrittore, ci sono tutti i libri e le annate della malapartiana rivista Prospettive).

 

Andando poi verso prua, ecco la suite Favorita, che lo scrittore-designer destinava alle signore, con bagno a gran vasca scavata d’alabastro grigio e letto incassato in severo armadio a ponte (oggi ci dorme e fa la doccia l’erede, Tommaso); e poi il Pensatoio, con gran scrivania tipo sagrestia o cabina di comando (manca solo il timone), e le piastrelle con la lira disegnate apposta da Savinio. Su tutto, un manifesto malapartiano di stile, contro il barocchetto caprese imperante, ancor oggi in voga tra Lucky Ladies di via Camerelle: “Nessuna colonnina romanica, nessun arco, nessuna scaletta esterna, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi tra stile moresco, romanico, gotico e secessionista”.

 

In giro, altre opere di puro Malaparte Design: ecco, nella stube in cui prendiamo delle insalatine perfettamente impiattate in Richard Ginori d’epoca col filino d’oro, guardando il mare in tempesta su tovaglie candide con la S di Suckert ricamata, un’abat-jour che parrebbe di bambù e invece è di filo di cuoio, con rivestimento molto moderno di shantung. Tutto opera dell’avo poliedrico. Ci sono i progetti e tutto, dice Alessia Rositani-Suckert, bellezza boschiva, nel senso di Maria Elena Boschi, in caftano. Bionda anche se discendente di ministri e diplomatici onduregni, sta studiando una minuscola edizione di questi pezzi disegnati dall’antenato: otto oggetti in tutto, tra cui alcune cornici, la panca, il tavolo, tutto con una ricerca abbastanza esasperata di bellezza e dettaglio (al momento si stanno selezionando gli alberi da cui – forse – un giorno questa produzione prenderà piede). E poi si occupa delle attività internazionali della casa: che, senza troppa pubblicità, da sempre ospita architetti (da Richard Rogers a Renzo Piano a Achille Castiglioni, che si svegliò perché aveva trovato un geco nel letto), in collaborazione con università americane, ma dal prossimo anno organizzerà workshop per venti fortunati studenti di tutto il mondo scelti a insindacabile giudizio dell’architetto londinese Billie Lee. “Casa Malaparte nasce chiaramente come casa privata, la famiglia fa grandi sforzi per mantenerla”, dice Lee al Foglio, arrivando in gommone anche lui; “non è facile far capire che aprirla al pubblico, renderla ‘accessibile’, ne distruggerebbe completamente il carattere”.

 

Eppure qualcuno entra: quest’estate ha fatto scalpore un compleanno di Larry Gagosian, boss dell’arte contemporanea globale, che qui ha voluto una piccola mostra da camera di Cy Twombly per primari amici internazionali. Qualche altro giorno la casa è stata data a Louis Vuitton per una mini sfilata di fondamentali gioielli. Queste attività, oltre a creare un network internazionale attorno al nome di Malaparte, coprono “le spese di restauro e mantenimento che sono proibitive”, dice Alessia, con le onde che arrivano al primo piano e spesso sfasciano tutto, e intonaci e serramenti da rifare costantemente, con qualche cura in più rispetto a villette capresi con piscina, pure assai costose. Questo uso liberista e americano di casa Malaparte fa naturalmente sturbare i locali, perché come i pattìni e gommoni che si sentono sotto, tutti vorrebbero entrare qui, tutti vorrebbero che la casa fosse pubblica, magari affidata a dei bei custodi tipo Pompei, giusto qui di fronte, tenuta così bene.

 

[**Video_box_2**]Invece l’avvocato Rositani-Suckert fa entrare solo “chi gli garba”, e difende la privatezza di questa casa protesa verso il mare, dove i napoletani vennero coi forconi a protestare per il ritratto poco urbano ne “La Pelle”, bloccati ai cancelli. Oggi ci sono diverse testimonianze di primari imprenditori buttati giù dalle scalette ripide anche in malo modo, dopo dei “lei non sa chi sono io” non proficui. Mentre qui, è bastato telefonare gentilmente per essere ammessi e poi addirittura ospitati. Gli si è garbati.
Intanto, a Capri, le dame benecomuniste rosicano, probabilmente perché mai invitate; un po’ come gli integralisti che protestano per le mostre di stilisti alla Galleria Borghese a Roma, e darebbero diversi organi interni per andare a qualche evento (privatissimo e sponsorizzato) in un primario museo pubblico tipo Metropolitan o Moma. Alcuni tirano fuori la vecchia questione cinese: la vulgata non solo caprese vorrebbe infatti che gli eredi abbiano ribaltato il testamento dello scrittore, che nel 1957 destinò l’immobile a una erigenda fondazione italo-cinese. Mentre la questione pare più semplice: poiché la Cina non era riconosciuta dal governo italiano (né da altri), l’obiettivo del lascito era impossibile, “e la casa ritornò automaticamente in famiglia”; e gli eredi del resto ci son sempre andati, con le loro zie e nonne, nella loro casa-opera d’arte, e “questi cinesi proprio non si sono mai visti a Capri”.

 

Così, galleggiando sui flutti e i rosicamenti locali, spendendo molti denari propri (mai preso un euro pubblico) per le manutenzioni, la vita trascorre surreale e espressionista a casa Malaparte. Si studiano gli archivi, si restaura e si conserva; si è costretti talvolta a rifiutare anche proposte imbarazzanti; di acquisto, da personaggi e cifre che non si dicono ma è facile immaginare, basta guardare i panfili in rada dalla finestra. O d’affitto: come quella del texano che “ha offerto centomila euro per dormirci una sola notte, e noi naturalmente abbiamo rifiutato, anche se quasi non ci ho dormito, per la cifra”, dice Alessia Rositani.

 

Noi invece si è dormito benissimo, e lasciare il Grand Hotel Malaparte, con i saponi liquidi giusti in bagni minimalisti e filologici, e gli asciugamani di lino, e un design evidentemente genetico, dopo tre giorni è particolarmente arduo. Fuori la società di massa preme alle porte, e intona il suo canto nell’altoparlante: “ecco la villa Malaparte…”, e gli smartphone ricominciano a scattare, tra le onde.

Di più su questi argomenti: