Bruno Contrada (foto LaPresse)

Così la sentenza Cedu su Contrada è andata “di traverso” alla giustizia italiana

Fabio Cammaleri

Come, dopo 25 anni, si arrivati da Strasburgo all'assoluzione dell'ex superpoliziotto  

La vicenda di Bruno Contrada, nonostante tutto, è ancora stretta fra parole un po' esoteriche e un po' tartufesche: come solo quelle del diritto, quando vogliono, sanno essere. Da un lato, il “titolo di reato”, che non c’era, ma fecondo di dieci anni di reclusione; dall’altro, una condanna che, pur divenuta “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, rimane tale.

 

Il “titolo di reato” è l’attribuzione ad una condotta umana di un certo valore criminoso; l’Autorità Giudiziaria penale esiste in ragione di questo potere di attribuzione. Perciò, quando se ne discute, non si discute di una parte: ma del tutto. E, sappiamo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, decidendo sul ricorso “Contrada contro Italia”, ha sancito che questo benedetto “titolo”, il c.d. “concorso esterno in associazione mafiosa”, doveva esistere al tempo dei fatti, poi contestati; e, invece, allora non esisteva.

 

L’ignaro di mirabilia giuridiche si aspetterebbe che finisca lì. Perché, allora, quella formula? Alla fine della fiera, sembra che la proposizione “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, implichi una sorta di significato “suicida”. Come se, dichiarato “inesistente” il “titolo”, contasse averne almeno un feticcio: sterilizzato, ma con un residuo stigmatizzante.
Contrada in questa storia ha fatto lo scalatore e, anche dopo Strasburgo, ha dovuto seguitare a farlo. Provato la revisione (Novembre 2015), e a Caltanissetta avevano respinto; poi, il ricorso straordinario per “errore materiale o di fatto” (Luglio 2016), e la Cassazione l’aveva dichiarato inammissibile; quindi, “l’incidente di esecuzione” a Palermo, per ottenere “la revoca” della sentenza, e lì, la Corte di Appello aveva dichiarato inammissibile pure quella richiesta. Alla fine, la Cassazione ha annullato senza rinvio tale ultimo diniego: tuttavia, decidendo nei termini visti. Si ha l’impressione che la sentenza CEDU su Bruno Contrada sia andata di traverso al sistema giudiziario italiano. Perciò, cavillare, sopire.

 

Il punto è che quella pronuncia era stata dirompente non solo, e non tanto, perché aveva censurato l’impreciso conio “giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno” al tempo dei “fatti”; ma, soprattutto, perché ne aveva colto acutamente proprio “l’origine giurisprudenziale”. Si erano resi penalmente rilevanti i comportamenti di Contrada, rendendolo reprobo retroattivamente: in maniera analoga a come sarebbe accaduto se fosse stata emanata una norma successiva ai fatti, e appositamente incriminatrice. Da Strasburgo sono formalmente baluginate movenze persecutorie.

 

Alla Corte di Appello di Palermo, quella dell’ultimo diniego, dopo lunghe e dotte distinzioni in punta di diritto, era come scappata un’affermazione, piuttosto illuminante, nel suo genere: si era trattato di “una interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”. Non solo; ma si aggiungeva che andava negata la stessa “origine giurisprudenziale” del concorso esterno: non c’entrano i giudici, è la legge italiana (peraltro fissando una tesi che verrà diffusamente ripresa).

 

Tanta perentorietà, nell’affermare quello che non è (la natura “normativa” del concorso esterno); una così poco sorvegliata “autarchia ermeneutica”, ragionevolmente, non si spiegano con la sola questione procedurale. Pare più plausibile un’altra spiegazione. Probabilmente, si avverte il rischio che, a partire da una singola vicenda, pur di capitale portata simbolica, si possa porre l’accento sul presupposto di quella “origine giurisprudenziale” del “titolo”; e, dunque, si offra il fianco ad una questione “ordinamentale”: “La” questione.

 

Sulle “vere storie d’Italia”, di cui il c.d. “concorso esterno” è stato il lievito giuridico, si è costruito un complesso sistema di legittimazione emotiva e culturale, coercitivamente presidiato: dove è sempre meno agevole distinguere le “avanguardie” dai “moderati” (ad es., l’idea, recepita a maggioranza parlamentare, per cui “la pericolosità sociale della P.A. merita Misure di Prevenzione uguali a quelle già previste per la mafia, è solo l’ultimo frutto, in ordine di tempo, di quella legittimazione); e che, proprio per questa comprensiva complessità, a riscuoterlo dalle fondamenta, potrebbe aprire vaste voragini.

Ecco perché, quasi fra le righe, si insiste sulla natura “normativa” del “concorso esterno”, con il coinvolgimento/ammonizione dell’intero sistema istituzionale, compreso il legislativo. Ecco perché, gli argomenti di tipo negazionistico (“non è successo niente”), anche in queste ore, si dispongono a seguire questo accomunante solco “patriottico” e “legislativo”. Ecco perché, quella formula tortuosa, “condanna improduttiva di effetti” (ma ancora tale), finisce col fungere da puntello sistemico: permette di estenuare l’equivoco sui “fatti” i quali, nonostante la carenza del “titolo di reato”, sarebbero ancora tutti lì.
Ma il “titolo di reato” non è un inerte contenitore di “fatti” che siano già rigidamente conformati, e debbano solo accatastarsi al suo interno, mantenendo quella loro forma immutabile; agisce piuttosto come un calco su una materia malleabile, gommosa; che, una volta liberata dalla erronea costrizione, si riespande, e riprende forme e configurazioni autonome. Gli stessi fatti, con il “titolo” hanno una forma, senza, ne hanno un’altra. Entrare in una casa altrui e asportarne un bene, si chiama furto; farlo con una divisa addosso si chiama sequestro.

 

Contrada teneva condotte di intelligence che, alla valutazione imposta dal “titolo”, dal calco, non si presentavano commendevoli. Ora si è capito che era stato un errore ritenerle, “conformarle” come tali. La “condanna”, dunque, è una riprovazione formalmente qualificata di una condotta; la riprovazione prende legittimo corpo nei suoi “effetti penali”; disconoscere questi, significa negare che la riprovazione, e il giudizio che l’ha sostenuta, fossero fondati.
Dopo venticinque anni, per “dignità gnoseologica”, per decenza istituzionale, per verità morale, non ci dovrebbe essere altro. Cavilli a parte.

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