Il generale Charles de Gaulle, presidente francese dal 1959 al 1969, in visita a Isles Sur Suippe nel 1963

Nascita di uno stato forte

Francesco Maselli

C’era una Francia debole e divisa, De Gaulle trovò la stabilità. Macron l’ha ereditata. Lezioni per l’Italia

Nella primavera del 1958 la Francia è a un passo dalla guerra civile. Il 15 aprile il governo di Félix Gaillard cade dopo soli sei mesi di vita senza una vera alternativa politica. Gaillard è incapace di gestire la rivolta del Fronte nazionale di liberazione algerino, il movimento che chiede l’indipendenza dell’Algeria da Parigi: l’opinione pubblica chiede fermezza, il Parlamento è diviso, prendere decisioni efficaci è quasi impossibile. Dopo settimane di trattative il presidente della Repubblica, René Coty, designa Pierre Pflimlin come nuovo capo del governo, ma la situazione degenera: il 13 maggio, ad Algeri, i generali di stanza nella città organizzano una manifestazione per tre soldati giustiziati pochi giorni prima dal Fnl e, approfittando del vuoto di potere, costituiscono un “comitato di salute pubblica”, si oppongono alla nomina di Pflimlin e richiedono il ritorno del generale De Gaulle. Il 15 maggio Charles de Gaulle si dice “pronto ad assumere il potere” e il 19 organizza una conferenza stampa alla Gare D’Orsay per rispondere ai giornalisti che gli chiedono rassicurazioni sul mantenimento delle libertà fondamentali: “Perché mai volete che a 67 anni io cominci una carriera da dittatore?”.

    

Nel frattempo il governo Pflimlin si trova nelle stesse condizioni degli esecutivi precedenti: è paralizzato e non ha più il controllo dell’Algeria. L’impero coloniale francese sta sparendo, dopo l’umiliazione durante la crisi di Suez e la sconfitta nella guerra di Indocina, nel 1956 la Tunisia e il Marocco dichiarano l’indipendenza. Il Parlamento, di fronte alla possibilità di perdere anche Algeri, non riesce a reagire: non soltanto è frammentato, ma i partiti sono a loro volta molto divisi sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’insurrezione. In ogni formazione convivono i fautori dell’Algeria francese e quelli più inclini al dialogo. Il 24 maggio il comitato di salute pubblica costituito ad Algeri dà il via alla prima fase del piano “Resurrezione” per prendere il potere: paracadutisti dell’esercito si lanciano ad Ajaccio, in Corsica e ne prendono il controllo in poche ore. Il prossimo obiettivo, si dice, è Parigi. A quel punto appare chiaro che soltanto il generale potrà ristabilire l’ordine. Il 29 maggio è lo stesso Pierre Pflimlin a chiederne il ritorno e a farsi da parte; il presidente della Repubblica decide di dare l’incarico al “più illustre dei francesi”. De Gaulle ottiene la fiducia dell’Assemblea nazionale il primo giugno 1958.

   

Il generale dà subito inizio ai lavori per la nuova Costituzione, largamente ispirata ai due discorsi da lui tenuti nel 1946 a Bayeux e Epinal, dove tratteggia la figura del presidente della Repubblica e le sue attribuzioni, poi sancite dall’articolo 5: “Il presidente assicura, con il suo arbitraggio, il funzionamento regolare dei poteri pubblici e la continuità dello Stato”. Il gollismo vuole una sistema istituzionale che consenta di prendere delle decisioni velocemente, dia più poteri al capo dell’esecutivo e razionalizzi l’attività del Parlamento. Guillaume Drago, professore di Diritto costituzionale all’Università Paris II Panthéon-Assas, spiega al Foglio qual è il ragionamento che fa nascere la Quinta Repubblica: “Quella generazione ha conosciuto le due guerre, ha vissuto il trauma dell’invasione nazista del 1940 e ha visto letteralmente scomparire lo stato. De Gaulle, che rifletteva da lungo tempo su una costituzione diversa, torna per ridare stabilità al paese, e soprattutto prestigio alla nazione. C’è quindi un lato simbolico, ma anche pratico: i gollisti, in particolare il ministro della Giustizia, Michel Debré, sentivano il bisogno di creare uno strumento per far ripartire la nazione e poterla cambiare”.

  

Il generale decide di non convocare un’assemblea costituente ma far redigere il progetto costituzionale da un comitato di esperti di alti funzionari, e un comitato interministeriale guidato da Michel Debré. Il governo è abilitato da una legge costituzionale che gli consente di procedere secondo cinque principi generali: il suffragio universale è la sola fonte del potere, il potere esecutivo e il potere legislativo devono essere effettivamente separati, il governo deve essere responsabile di fronte al Parlamento, l’autorità giudiziaria deve essere indipendente, la Costituzione deve permettere di organizzare i rapporti della Repubblica con i popoli associati.

  

I lavori, iniziati il 4 giugno, terminano il 14 agosto dopo un voto favorevole del comitato consultivo dell’Assemblea nazionale. Il progetto raccoglie il consenso dei partiti tradizionali, che appoggiano e partecipano alla redazione del nuovo testo. Gli si oppongono una parte dei socialisti, i radicali di Pierre Mendès-France, une parte dell’Unione democratica e socialista della Resistenza di François Mitterrand, e i cristiani di sinistra. E’ proprio il leader socialista che utilizza, il primo giugno, parole durissime verso il generale e il suo progetto di revisione costituzionale: “Quando, il 10 settembre 1944, il generale De Gaulle si è presentato davanti all’assemblea provvisoria forte delle battaglie in esilio e della resistenza, aveva con sé due compagni che si chiamavano onore e patria. I suoi compagni di oggi, che senza dubbio non ha scelto, ma l’hanno tuttavia seguito fin qui, si chiamano colpo di forza e sedizione”. Mendès-France, lo stesso giorno, va oltre: “E’ soltanto perché il Parlamento ha deciso di inginocchiarsi che non abbiamo avuto un colpo di stato”. Ciononostante il 28 settembre 1958 i francesi approvano il progetto con il 79,25 per cento dei voti favorevoli, nasce la Quinta Repubblica e il presidente diventa la “chiave di volta” del sistema teorizzata da Debré.

    

Il capo dello stato francese è il leader democraticamente eletto con più poteri dell’Europa occidentale. E’ il capo delle forze armate, può sciogliere il Parlamento senza essere legato dal rapporto di fiducia, nomina il primo ministro e presiede il Consiglio dei ministri, è abilitato dall’articolo 16 a esercitare i pieni poteri in caso di minaccia all’indipendenza nazionale, può sottoporre a referendum alcune leggi, nomina gli alti funzionari. Incarna la Francia, ed è, dal punto di vista simbolico, come teorizzato dal costituzionalista Marcel Duverger, un “monarca repubblicano”. Emmanuel Macron, in un’intervista del 2015 con il settimanale Le 1, tratteggia il ruolo del presidente nell’immaginario dei francesi e il motivo della grande crisi di credibilità che la funzione attraversava in quel momento, con François Hollande: “Nel processo democratico e nel suo funzionamento c’è un assente: è la figura del re, che credo il popolo francese non abbia voluto vedere morto. Il Terrore ha scavato un vuoto emozionale, immaginario, collettivo: il re non è più lì! Abbiamo cercato di riempire questo vuoto mettendoci altre figure, ma ci siamo riusciti davvero soltanto nel periodo napoleonico e in quello gollista; a parte questi due periodi, la democrazia francese non è riuscita a riempire questo vuoto. La dimostrazione è la continua messa in discussione della figura presidenziale, costante da quando il generale De Gaulle è morto. Dopo il generale, la normalizzazione della figura presidenziale ha inserito una poltrona vuota nel cuore della vita politica: pretendiamo che il presidente della Repubblica occupi questa funzione, ma chi è eletto non riesce più a farlo”. Roland Cayrol, politologo di Sciences Po, si mostra d’accordo con questa interpretazione, ricordando il ruolo pervasivo del presidente: “Mitterrand, che era molto critico con De Gaulle nel ’58 ma poi ha adorato la carica creata dal suo avversario, mi diceva di fare attenzione persino alla nomina dell’ultimo dei sottoprefetti, perché emanazione della République. Tutto viene deciso all’Eliseo”.

    

Quanto ha contato la frammentazione politica nel ritorno di De Gaulle? L’instabilità dei regimi parlamentari in Francia, nella Terza e nella Quarta Repubblica, era cronica e molto simile a quella che ha conosciuto l’Italia nel secondo dopoguerra. Si contano 104 governi tra il 1871 e il 1940, e 24 tra il 1947 e il 1958. Ma, secondo Roland Cayrol, questo non è il solo motivo del cambiamento di Costituzione: “Durante la Terza e la Quarta repubblica esisteva una forma d’instabilità a suo modo stabile. I governi cambiavano in continuazione, ma i personaggi erano sempre gli stessi, e soprattutto aiutati da un periodo di grandissima crescita economica. La deflagrazione fu la guerra d’Algeria. Prima del maggio 1958 i sondaggi erano molto chiari: soltanto il 3 per cento dei francesi voleva il ritorno di De Gaulle, nel senso che una soluzione del genere non era nemmeno ventilata. Dopo il putsch la situazione precipita”.

    

Nel 1962 il regime della Quinta Repubblica subisce un cambiamento fondamentale. Il presidente, nel progetto originale, era eletto in modo indiretto: il collegio elettorale era composto da circa 80 mila persone tra parlamentari, consiglieri regionali e rappresentanti dei consigli municipali. De Gaulle, per motivi mai chiariti, decide di cambiare il modo di scrutinio: il presidente sarà eletto a suffragio universale, in un’elezione a doppio turno. Una modalità che il presidente non aveva considerato nel 1958: “Non si sa cosa abbia portato il generale a prendere questa decisione ma di sicuro l’intenzione era aumentare la legittimità del presidente della Repubblica nei confronti degli elettori, e all’interno dello stesso esecutivo”, ci spiega Drago.

   

La scelta, probabilmente influenzata dall’attentato subito nell’agosto di quell’anno, è dettata anche dalla volontà di dare uno strumento forte ai suoi successori. L’attacco, organizzato dai militanti dell’Oas, oppositori della politica algerina del generale, reo di aver abbandonato l’Algeria francese, mostra che la crisi non è terminata. Il progetto è presentato ai francesi il 20 settembre 1962, durante un discorso in televisione: “De Gaulle sosteneva di avere ‘la legittimità della storia’, aveva liberato la Francia, fatto la resistenza, insomma il suo ruolo non era messo in discussione – racconta Cayrol – ma chi sarebbe venuto dopo di lui? L’introduzione del suffragio universale guarda oltre la contingenza”. L’iniziativa del generale produce subito una grave crisi politica: De Gaulle giudica troppo lenta la revisione costituzionale richiesta dalla Costituzione, che prevede la convocazione di entrambe le camere e l’approvazione della modifica con una maggioranza dei tre quinti o con un referendum. Decide quindi di non utilizzare l’articolo 89 della Costituzione ma l’11, che consente referendum sulle leggi che organizzano i pubblici poteri.

    

La reazione dei parlamentari è immediata. Il 5 ottobre tutti i partiti, tranne il movimento gollista, approvano una mozione di sfiducia verso il governo del primo ministro Georges Pompidou; De Gaulle reagisce sciogliendo l’Assemblea e convocando elezioni legislative da tenere subito dopo il referendum. La contestazione è molto dura. Pierre Mendès-France arriva addirittura a rifiutare, nel giornale che presiede, i Cahiers de la République, la pubblicazione di articoli favorevoli alla riforma; il presidente del Senato, Gaston Monnerville, arriva a chiedere l’arresto del presidente. Si oppone, ancora una volta, François Mitterrand, che nel 1964 scriverà un saggio intitolato “Il colpo di stato permanente” per descrivere il potere eversivo del generale. De Gaulle sceglie dunque di cambiare il sistema politico in aperto scontro con i partiti tradizionali. “Detestava i partiti, e immagina l’incontro di un solo uomo con il paese proprio per limitare il potere decisionale e di veto dei corpi intermedi – spiega Cayrol – viene subito seguito dai francesi, che ancora oggi adorano l’elezione diretta del presidente: la presidenziale è uno dei pochi argomenti che mette d’accordo tutti. L’elezione diretta è un diritto concesso al popolo dal generale, e il popolo lo vive come tale, difficilmente potrebbe accettare di non esercitarlo più”. Il referendum conferma l’intuizione gollista: con il 62,25 per cento la riforma è approvata a larga maggioranza.

   

La preminenza del presidente prevista dalla costituzione del ’58 e dal cambiamento del modo di scrutinio del ’62 non impedisce, tuttavia, la coabitazione. Il capo dello stato è eletto per sette anni, il Parlamento che dà la fiducia al governo per cinque. Può succedere, dunque, che la maggioranza parlamentare esprima un governo di colore politico opposto al presidente. E’ capitato tre volte, due con François Mitterrand (Jacques Chirac ed Édouard Balladur primi ministri), una con Jacques Chirac (Lionel Jospin primo ministro). Nel 2000 i partiti si accordano per un nuovo cambiamento: dalle elezioni del 2002 i mandati di presidente e Parlamento sono uniformati a cinque anni. Il progetto di legge costituzionale è votato a larga maggioranza in Parlamento e approvato tramite referendum con il 73 per cento dei voti favorevoli. L’affluenza, molto bassa (vota soltanto il 30 per cento degli aventi diritto), segnala che per i francesi non si tratta di un cambiamento fondamentale, ma quasi di un’evoluzione scontata. Non ci furono particolari opposizioni al progetto. “Il punto fondamentale di quella riforma – spiega Cayrol – fu l’inversione del calendario. Far votare prima le presidenziali delle legislative determina che queste diventino delle elezioni di conferma. Il fatto maggioritario, cioè il risultato delle elezioni legislative che conferma le presidenziali di poche settimane precedenti, si rafforza”. E infatti Emmanuel Macron, senza un partito strutturato, parlamentari uscenti o grandi figure, è riuscito a ottenere una maggioranza solidissima alle ultime legislative, forte soltanto del suo successo alle presidenziali.

   

Grazie a questo sistema la Francia è diventata un paese stabile dove le istituzioni consentono a chi vince le elezioni di governare, se ne è capace. Avere un sistema che consente di prendere delle decisioni non vuol dire riuscire a portarle a termine, i partiti sono per tradizione molto litigiosi, e il presidente non sempre è riuscito a gestire la sua maggioranza. Il quinquennat di Hollande ne è un esempio. I regimi parlamentari che si fondano sul compromesso sono in difficoltà, in Spagna governa un esecutivo di minoranza dopo che il paese è stato costretto a votare due volte in un anno, in Olanda sono stati necessari sette mesi di trattative per avere un governo, persino in Germania, paese abituato al compromesso e alla coesistenza di diverse sensibilità al governo, Angela Merkel non è stata ancora in grado di formarne uno. Guillaume Drago è d’accordo, grazie alla sua Costituzione la Francia è un paese stabile, ma non bisogna dimenticare che il sistema immaginato nel ’58, seppure molto cambiato, “resta un regime parlamentare, nel senso che l’esecutivo è legato al Parlamento dal rapporto di fiducia. E’ vero, le elezioni legislative sono confermative, ma va ricordata una cosa: nessuno predice il futuro e niente impedisce crisi di governo durante la legislatura. Per questo bisognerebbe riflettere molto prima di inserire dosi di proporzionale che potrebbero bloccare un sistema che ha dimostrato di funzionare molto bene”.

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