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C'è poco da sorprendersi se Xi Jinping strapazza gli oligarchi cinesi

Francesco Galietti

Le aziende private di Pechino non sono così libere (né trasparenti) come ci illudevamo. E' il capitalismo autoritario, bellezza!

L’improvviso irrigidimento nei rapporti tra la nomenklatura del presidente Xi Jinping e un corposo elenco di gruppi privati cinesi ha destato notevole clamore al di fuori dei confini cinesi. Non solo perché i nomi in questione – Wanda, Anbang, Hna e molti altri ancora – sono, per l’appunto, glamorous e perché la durezza di Xi è enorme. Piuttosto, la reazione si spiega con il fatto che i gruppi in questione avevano dato corpo a una campagna di shopping senza precedenti all’estero. Questo, a sua volta, aveva convinto molti osservatori occidentali dell’inevitabile avvento di un capitalismo cinese ormai affrancatosi dai vincoli statali e/o in rapida evoluzione verso paradigmi capitalistici anglo-americani. In altri analisti e studiosi era invece radicato il convincimento che tra i colossi cinesi e il potere cinese vi fosse una sintonia pressoché totale. Passò ai posteri, per esempio, la clamorosa litigata nella suggestiva cornice orobica di Davos tra Joseph Nye, insigne accademico di Harvard e ideatore della fortunata formula “soft power”, e il patron di Wanda, definito dallo stesso Nye l’“incarnazione del soft power cinese”. La realtà, come sovente accade, é assai meno edificante e più sfuggente rispetto ai confortevoli paradigmi occidentali. Ecco perché.

 

In primo luogo, molti plutocrati cinesi salirono in rampa di lancio con nomenklature partitiche oramai travolte da Xi. Questo non depone a loro favore. Fino all’“ora X” del Congresso autunnale del Partito comunista, i gruppi societari cinesi dovranno essere oltremodo attenti a non commettere leggerezze, incluse acquisizioni a debito. Xi è a tal punto determinato che in questo momento solamente fare il sindaco di Chongqing è più rischioso dell’essere un plutocrate.

 

Sarà senza dubbio interessante osservare chi sarà salvato da Xi e chi no, ma sul piano pratico le fibrillazioni si stanno già trasmettendo fino in Occidente. Come si sentirà ad esempio Angela Merkel leggendo che un maxi-azionista della prima banca tedesca è attualmente sulla lista nera di Xi Jinping?

 

Sul piano generale, va invece ricordato che quello cinese è il maggiore esempio al mondo di capitalismo autoritario, in cui le analogie con il capitalismo democratico sfumano di fronte alla imponente piramide gerarchica. Alla sua sommità si trova il plesso di potere politico-militare, e non già le aristocrazie venali che invece detengono il primato nel milieu occidentale. Le aristocrazie venali sono ammesse e sono incoraggiate unicamente come amplificatore di potenza. Vengono invece annientate senza pietà nel momento in cui beneficiano della mano pubblica cinese senza assecondarne il Wille zur Macht. Non mancano le analogie con quanto era già avvenuto tra Putin e gli oligarchi russi. Novelli re Mida dopo la spoliazione dell’Unione sovietica, molti di loro si erano convinti di essere ormai un potere sovraordinato rispetto al Cremlino. Chiamato a ricomporre un ordine dal caos, Putin tirò le briglie con uno sfoggio di forza e violenza inconcepibile in ampi settori dell’occidente.

 

I riverberi in occidente di assestamenti di potere in corso in terre lontane sono dunque inevitabili. Tanto vale che i governanti occidentali la smettano una volta per tutte di fingere che tutto il denaro sia uguale. L’investimento autoritario si traduce infatti in prezzi più alti, ma al contempo incorpora una robusta componente di rischio politico che ciclicamente esce dallo stato latente e destabilizza il destinatario dell’investimento. C’è dell’altro: le dinamiche del capitalismo autoritario hanno finito per rovesciare uno dei dettami più rigidi in vigore degli analisti di rischio politico, finora attenti a concentrare le proprie analisi di rischio esclusivamente sul paese di destinazione dell’investimento (“host state”) anziché su quello di provenienza (“home state”) dell’investitore. Inoltre, sono gli investimenti da parte di privati a essere le principali cinghie di trasmissione delle frizioni di potere, anziché quelli operati da soggetti sovrani (Banche centrali, fondi sovrani, aziende di stato). Infatti, mentre le armonie tra i privati e il potere politico pro tempore vengono ciclicamente rimesse in discussione, quelle tra lo stato e le proprie viscere non sono che una partita di giro tra i politburo partitici e i propri pretoriani.

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