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Dopo la morte di Liu Xiaobo

Eugenio Cau

Pechino ha piegato il concetto di democrazia a sua immagine, e lo esporta in Asia

Per molti anni, Liu Xiaobo non è stato soltanto il più importante dissidente contro il regime comunista cinese, è stato il simbolo che il sistema politico della Cina poteva cambiare. Nel 2010, quando ricevette il premio Nobel per la Pace, la notizia fu accolta negli ambienti filo democratici cinesi come una svolta. Finalmente il sostegno internazionale tanto atteso è arrivato, si stanno creando le opportunità per cambiare il paese e iniziare un processo di riforme democratiche. Come sappiamo, non accadde niente di tutto questo. Liu Xiaobo rimase in prigione e, nel 2013, l’avvento al potere del presidente Xi Jinping ha portato a una stretta dura contro il dissenso. Come hanno scritto Josh Chin ed Eva Dou sul Wall Street Journal, con la morte di Liu Xiaobo la settimana scorsa il movimento democratico in Cina è ormai ridotto a un lumicino che sta per spegnersi. Decenni di repressione in patria hanno privato di leader e di figure carismatiche il movimento democratico cinese. Liu Xiaobo era l’ultimo di essi. L’uomo che è da molti considerato il suo successore, Xu Zhiyong, è stato rilasciato sabato mattina dopo quattro anni di prigione, ma nessuno pensa che sia davvero libero. Gli altri membri del movimento democratico in Cina sono pochi, disorganizzati e insicuri su come far sopravvivere il movimento. Anche il supporto tra la gente non è più quello di un tempo: il governo è riuscito a dipingere i dissidenti come nemici dello stato e a far dimenticare le rivendicazioni democratiche grazie al miglioramento dello stile di vita.

   

Così, in Cina, ormai non c’è praticamente più nessuno che tenga alta la bandiera della democrazia, con un’unica eccezione: il Partito comunista. Come ha notato Rana Mitter sul South China Morning Post, è facile leggere la parola “democrazia”, minzhou, sui cartelloni propagandistici a Pechino e sentirla pronunciare dalla propaganda per promuovere il regime comunista. Non si tratta della democrazia che intende l’occidente, ma è forse questo il sintomo più evidente della sconfitta delle lotte democratiche in Cina: il governo è riuscito ad appropriarsi della parola democrazia e a piegarla a proprio vantaggio, e né i cinesi né i paesi sinceramente democratici sembrano farci troppo caso, anzi.

  

Usando la leva economica e il crescente peso geopolitico, la Cina sta rendendo più accettabile il proprio stile di “democrazia” in tutta l’Asia. In alcuni casi questo processo è attivo – si veda l’appoggio dato da Xi al presidente filippino Rodrigo Duterte davanti allo sdegno occidentale per le pratiche sanguinarie della sua guerra alla droga. In altri casi è un “leading by example”. Reprimendo i dissidenti e soffocando le aspirazioni democratiche senza subire conseguenze, la Cina dimostra che non è più necessario prendere la strada stretta – quella del consenso popolare, delle riforme politiche, dell’apertura alla stampa libera – per essere un paese di successo e apprezzato nel mondo. Così, per esempio, la Signora Aung San Suu Kyi in Birmania, lei stessa santino occidentale pro democrazia, non si trova affatto a disagio a governare fianco a fianco con il regime militare. La Thailandia, dopo un periodo democratico tumultuoso, è ritornata sotto il controllo dell’esercito.

   

Non è un caso che la regressione democratica sia concomitante nei paesi asiatici alla formazione di più forti legami economici con la Cina. Quando, pochi mesi fa a Davos, Xi Jinping recitò la sua difesa della globalizzazione, i leader mondiali in visibilio non si accorsero del fatto che la globalizzazione dipinta da Xi mancava di un elemento fondamentale, le riforme di apertura politica. L’occidente, che vede sorgere una potente alternativa – ideologica ed economica – al suo modello di civiltà, potrebbe rispondere, ma per ora nessuno sembra interessato a occuparsene.

   

Il giorno dopo la morte di Liu Xiaobo, il presidente americano Donald Trump, rispondendo a una domanda sulla Cina, ha ripetuto la sua cantilena abituale sul presidente Xi Jinping “very good man” senza dedicare una parola al dissidente premio Nobel. Gli europei, dall’alto del loro disprezzo della politica trumpiana, non hanno fatto meglio: qualche messaggino su Twitter, e nessuna azione ufficiale davanti al lento spegnersi, prima in cattività e poi in una farsesca libertà ospedaliera, dell’ultimo uomo in Cina che aveva il coraggio di morire per i loro valori.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.