Mosul, si continua a combattere (foto LaPresse)

L'Isis cambia capitale

Daniele Raineri

Tutto quello che fa l’occidente contro lo Stato islamico, mentre ci lamentiamo di non fare nulla

Roma. Dopo ogni attacco dello Stato islamico nei paesi occidentali – l’ultimo è la strage al concerto di Manchester – è curioso notare come nel grande pubblico circola sempre una riflessione amara e autodeprecatoria: “E l’occidente che fa contro questo mostri sanguinari? Nulla!”. In realtà accade l’opposto: l’occidente sta facendo molto, stiamo facendo molto, ma spesso le notizie dal fronte della guerra contro lo Stato islamico non sono date, oppure non sono date abbastanza bene. Facciamo il punto di dove siamo arrivati ora. Il gruppo terrorista ha di nuovo cambiato capitale, ora è la città di Mayadin, in Siria, sulle sponde del fiume Eufrate. Dopo Mosul (in Iraq, due milioni di abitanti) e Raqqa (in Siria, duecentomila abitanti) il gruppo terrorista si è spostato in blocco in un piccolo centro da 44 mila abitanti perché è braccato dai nemici, vale a dire forze curde e arabe a terra (quindi un po’ tutti, iracheni, siriani e altri) e aviazioni occidentali dall’alto. A Mosul ormai lo Stato islamico controlla soltanto un paio di quartieri, dieci chilometri quadrati, e Raqqa è già assediata su tre lati: l’ultimo lato è quello, appunto, da dove la gente dell’Isis scappa verso sud, verso Mayadin. I testimoni da Raqqa raccontano di un’atmosfera da fine impero: pochi uomini dello Stato islamico rimasti a sorvegliare gli incroci, alcuni battaglioni di fanatici che preparano la battaglia-quasi-finale e leader in fuga con le famiglie. Le donne del gruppo chiedono ai dottori di farsi indurre il parto in anticipo sulla scadenza naturale, per non rischiare di partorire in viaggio verso sud. Da fuori, i curdi armati dagli americani sono ormai in vista delle prime file di case e mettono le foto su Twitter: eccoci arrivati a Raqqa.

   

La città siriana è stata trasformata in una kill-box, che nel gergo dei piloti di droni è il territorio delimitato da sorvolare a caccia di leader e di bersagli importanti. Lunedì un missile ha colpito l’automobile di Turki al Binali, il predicatore più importante dello Stato islamico. Al Binali è sconosciuto in occidente, ma era uno degli uomini più riveriti dell’Isis. In Bahrain era un predicatore molto conosciuto ma aveva una seconda identità segreta, scriveva trattati estremisti a favore del terrorismo e li faceva girare su internet con un altro nome. Nell’estate 2013, quando ancora poteva viaggiare perché aveva un passaporto valido, era andato in Libia, a Sirte, a tenere un ciclo di lezioni islamiste e a preparare il terreno per l’avvento dello Stato islamico anche lì. C’è una sua foto mentre mostra il tunnel di scolo in cui fu catturato Muammar Gheddafi nell’ottobre 2011 che ha un fascino ipnotico: il leader dello Stato islamico, ma ancora in una forma presentabile, travestito da imam legittimo, sul luogo della scomparsa del dittatore arabo. Si capisce che quando nel 2014 al Binali aveva rotto gli indugi ed era scappato a Raqqa il gruppo islamista aveva celebrato il suo coming out jihadista come una vittoria. Cinque giorni fa, anche lui è finito nella sequenza di leader dell’Isis localizzati e uccisi uno a uno dalle intelligence occidentali.

   

Anche Mayadin è diventata una kill-box. Il 6 aprile i commando della Delta Force americana sono atterrati e hanno ucciso Abdul Rahman al Uzbeki, che era il mandante della strage del club Reina a Istanbul a Capodanno. La settimana scorsa i droni hanno ucciso Mustafa Gunes, un turco che lavorava alle operazioni esterne dell’Isis, quindi anche agli attentati in occidente, e un franco algerino che addestrava i soldati bambino del gruppo. Ci sono anche bombardamenti convenzionali sopra Mayadin e questa settimana al Jazeera ha detto che uno di questi bombardamenti ha ucciso cento civili – queste notizie, verificate o meno, arrivano di rado all’attenzione dell’audience occidentale che poi protesta: “Non facciamo nulla contro l’Isis”. E il Wall Street Journal lunedì ha raccontato che le forze speciali francesi a Mosul danno la caccia ai francesi arruolati dallo Stato islamico, hanno una lista di trenta nomi da trovare e uccidere, perché, come commentano i soldati iracheni: “Meglio eliminarli qui che trovarseli poi di nuovo in Francia”.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)