Angela Merkel e Donald Trump (foto LaPresse)

La svolta di Merkel conforta gli adepti dell'America First

I trumpiani della prima ora esultano per la cancelliera che chiude l’epoca del mondo a guida americana

New York. La virata della politica europea impostata da Angela Merkel davanti a un boccale di birra dopo il G7 a stretto contatto con Donald Trump è ventata d’aria fresca per i sostenitori più intransigenti del presidente americano, quelli che erano allarmati dagli indizi di una sostanziale continuità con la tradizione internazionalista dell’America. “I tempi in cui possiamo totalmente affidarci ad altri sono in una certa misura finiti, l’ho sperimentato negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero prendere il destino nelle nostre mani”, ha detto la cancelliera, riferendosi a Trump senza citarlo direttamente.

 

I “totalmente” e “in una certa misura” pronunciati da Merkel sono cautele politiche significative per un leader che di rado sceglie le parole con leggerezza (altra differenza abissale con Trump), ma l’ex inviato americano presso la Nato, Ivo Daadler, ha fatto una sintesi efficace del concetto: “È la fine dell’era in cui gli Stati Uniti guidano e l’Europa segue. Oggi gli Stati Uniti su questioni chiave vanno in una direzione che appare diametralmente opposta a quella in cui va l’Europa. Le parole di Merkel sono la presa d’atto di una nuova realtà”.

 

Letto dagli Stati Uniti, sponda Trump, il cambio di postura è una monumentale vittoria politica nell’ottica dell’America Fisrt come principio organizzativo delle relazioni globali. Nella sua prima missione all’estero, Trump ha fatto una sonora ramanzina agli alleati della Nato che non contribuiscono a sufficienza alle spese (e ha rimesso in discussione il 2 per cento del pil come contributo adeguato), si è rifiutato di riaffermare l’adesione all’articolo 5, si è messo di traverso sulle politiche d’immigrazione, ha guadagnato tempo sull’accordo di Parigi e ha preso accordi soltanto sul contrasto al terrorismo. Una performance notevole agli occhi dei paladini del disimpegno americano che hanno trovato in Trump l’interprete di un vecchio slogan lanciato dalla rivista The American Conservative: “Siamo una repubblica, non un impero”. Gli affari con l’Arabia Saudita, l’accoglienza trionfale accordata da Benjamin Netanyahu e anche l’incontro con Francesco, molto più produttivo e sereno di quanto i critici sperassero, sono altri segni che confortano i fautori della Realpolitik trumpiana. Quando Trump prometteva “Make America Great Again” non intendeva certo promuovere l’estensione dell’influenza americana nel mondo. La posizione valeva in particolar modo per l’Unione europea, che del resto rivendica dalla sua nascita il ruolo di polo alternativo in un mondo a guida americana. Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, ha detto che le parole di Merkel incarnano “ciò che l’America ha cercato di evitare dalla Seconda guerra mondiale”, ma nella prospettiva degli elettori più radicali di Trump, l’America aveva perseguito l’obiettivo sbagliato: diventare la “nazione indispensabile”.

 

Il discorso con cui Trump aveva lanciato la campagna elettorale, nell’ormai lontano luglio del 2015, era in sostanza una lamentazione del parassitismo delle nazioni straniere, incoraggiato nei decenni dalla prospettiva internazionalista condivisa dai due maggiori partiti. Diceva “io batto la Cina tutte le volte”, spiegava all’America che il Messico “ride della nostra stupidità” e “gli Stati Uniti sono diventati la discarica di tutti i problemi del mondo”. Per paradosso, Merkel ha confermato gli elettori trumpiani nella convinzione che quella visione isolazionista non è stata del tutto abbandonata. In questi quattro, confusi mesi di governo anche fra gli opinionisti più sdraiati sulle posizioni di Trump si è insinuato il dubbio che il presidente si fosse insabbiato nella palude “globalista”. La crescita dell’influenza alla Casa Bianca della cosiddetta “ala di New York”, capeggiata da Jared Kushner, a discapito di quella populista di Steve Bannon aveva fatto indispettire molti. L’ascesa della pattuglia di Goldman Sachs, da Gary Cohn a Dina Powell, aveva mandato un altro messaggio del riposizionamento nei ranghi dell’establishment, e molti trumpiani della prima ora s’erano allarmati di fronte all’intervento militare in Siria per rispondere all’attacco chimico del regime a Idlib. Trump ha abbandonato le promesse dell’America First? È tornato alla logica del poliziotto globale?, si domandavano. Merkel ha risposto ai loro dubbi.

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