Uno dei feriti dell'esplosione alla metropolitana di San Pietroburgo (foto LaPresse)

La strage di San Pietroburgo

Daniele Raineri

Quattordici morti e due bombe nei metrò. L’intelligence di Mosca è in guerra contro migliaia di terroristi russofoni e la guerra civile in Siria fa da acceleratore. Putin (per ora) non risponde alla Putin, è già in campo e non ha bisogno di proclami

[ARTICOLO AGGIORNATO ALLE 10:57 DI MARTEDI' 4 APRILE IN REDAZIONE] Roma. Sabato 12 novembre 2016 i servizi di sicurezza russi, Fsb, arrestarono dieci persone tra Mosca e San Pietroburgo e confiscarono armi da fuoco e quattro bombe. Le immagini delle forze speciali del ministero dell’Interno che mantenevano un cordone di sicurezza nel cortile di un brutto palazzone sovietico sparirono in fretta dai notiziari internazionali, ma il dato di fatto è che quelle squadre di estremisti preparavano attentati spettacolari, tipo Parigi, contro “grandi assembramenti di persone” nelle due città russe più famose – dissero gli investigatori. “Erano in contatto con capi dello Stato islamico”. Come in Francia e Belgio, facevano parte di una struttura in attesa di agire che però fu smantellata in tempo. Non fu spiegato nulla sull’identità degli arrestati, ma si seppe che si era arrivati all’irruzione negli appartamenti e alla loro cattura grazie alla collaborazione con i governi di due repubbliche centroasiatiche, Tagikistan e Kirghizistan, dove l’influenza dello Stato islamico si fa sentire con forza. Sono passati sei mesi. Per ora non c’è ancora alcuna rivendicazione per l’attentato alla metro di San Pietroburgo che lunedì all’una e mezza ha ucciso quattordici persone. Tuttavia, c’è una probabilità altissima che la strage sia opera di uno di questi due gruppi: lo Stato islamico oppure l’Emirato del Caucaso. Quest’ultimo è il rimasuglio della guerra dei separatisti ceceni negli anni Novanta, che poi si è calmata ma ha dato origine a una mutazione estremista molto violenta. Negli ultimi anni l’Emirato del Caucaso (Imarat Kavkaz) ha colpito più volte con questa stessa tecnica, prima la metro di Mosca – due volte nel febbraio e agosto 2004, cinquanta morti in tutto – e poi nel marzo 2010 (altri quaranta morti) e poi ancora una stazione e un bus a Volgograd nel dicembre 2013 (34 morti prima delle Olimpiadi invernali di Sochi, quando l’attenzione dei servizi di sicurezza era allo spasimo. Eppure). Per non parlare del teatro Dubrovka e della scuola di Beslan. Questo sia detto per ricordare che non esiste soltanto l’Isis sulla lista dei sospettati e che c’era già una lotta in corso tra intelligence russa e terroristi prima dell’ascesa del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi.

 

Non c’è alcuna rivendicazione, per ora, anche perché non si è trattato di un attentato suicida – dice l’agenzia russa Interfax citando gli artificieri della città – e in questo caso lo Stato islamico di solito concede ai suoi uomini un po’ di tempo prima di farsi avanti con i dettagli, per lasciare loro un po’ di vantaggio sui servizi di sicurezza. Anche l’altro gruppo, l’Imarat Kavkaz, è lento nelle rivendicazioni: un mese dopo l’attentato di Volgograd, dopo che la stampa si era ormai sbizzarrita senza ritegno con la storia mai confermata ma appetibile della Vedova nera cecena Oksana che si era fatta saltare all’ingresso della stazione, pubblicò un video testamento di più di 40 minuti con i due attentatori – che erano due giovani uomini. Anche in questo caso la polizia cerca due uomini, uno ha lasciato la bomba sul vagone – dove poi è esplosa con tale forza da piegare due porte di seguito verso l’esterno – e un altro ne ha abbandonato una seconda in una stazione diversa, come se avesse lasciato l’operazione all’ultimo. La bomba è più sofisticata del solito: è travestita da estintore, una mascherata plausibile come peso e dimensioni per ingannare i controlli, e dentro c’è la composizione che ci siamo abituati a vedere in questi anni di attentati contro i civili. Esplosivo e pallini di piombo.

 

La scritta Imarat Kavkaz, con il profilo stilizzato di un paio di montagne bianche, compare talvolta su alcune magliette di guerriglieri nel nord della Siria, e a meno che la rivendicazione non arrivi da un qualche lato che proprio non ci aspettavamo, la Siria c’entra molto con gli attentati in Russia. In questi anni un numero enorme di foreign fighters di lingua russa è andato a combattere in Siria e in Iraq, le stime più alte dicono settemila. Anche laggiù si sono divisi a seconda della loro lealtà, tra Isis e Imarat, con una maggioranza enorme a favore di Baghdadi. I russofoni sono così importanti che il ministro della Guerra dello Stato islamico al momento è – secondo le fonti più aggiornate – Abu Omar al Tajiki, meglio conosciuto come Gulmurod Khalimov, colonnello dei servizi di sicurezza del Tagikistan che è passato pure per un paio di corsi di addestramento dell’esercito americano prima di mollare tutto e arruolarsi nell’Isis (questo particolare non manca mai di far sbavare i complottisti, come se l’Isis non provasse ogni giorno di uccidere ecumenicamente un po’ tutti, turchi e curdi, russi e ribelli siriani). E prima di Khalimov il ministro della Guerra era stato un altro russofono, il rosso Omar al Shishani, pure lui con un passato da militare. I russofoni più fanatici si occupano in questi mesi della difesa della capitale di fatto dell’Isis in Iraq, Mosul, anche per un calcolo cinico: sono combattenti determinati e terranno la posizione fino alla morte, e tanto dopo non serviranno più a nulla perché non si potranno mimetizzare e mescolare agli sfollati. A marzo a Mosul è stato ucciso Abdul Kareem il Russo, che era il capo della brigata Tariq bin Zayed, quindi una delle due brigate che raccolgono i foreign fighters dell’Isis (che porta il nome del conquistatore arabo dell’Andalusia, nome assai caro allo Stato islamico). C’è anche un canale media specifico dello Stato islamico in russo che si chiama al Forat, vale a dire “il fiume Eufrate”, che attraversa il cuore del territorio controllato dagli estremisti.

 

Lo Stato islamico non è un gruppo guidato da rimostranze politiche: vuol dire che ammazzerebbe russi per il solo fatto che come tutti non vogliono essere soggiogati dall’Isis, quindi anche se non fossero impegnati in operazioni militari in Siria sul fronte di Palmira. Però il gruppo può scegliere le priorità delle operazioni e non c’è dubbio che Russia e Turchia siano alte sulla wish list dei capi che pretendono attentati spettacolari – che vendichino in parte le sconfitte enormi patite sul campo (tra poco cadrà Mosul, e dopo Raqqa).

 

La Russia è sotto attacco. Un volo charter carico di turisti russi è stato abbattuto in Sinai nel 2015, l’ambasciatore russo è stato ucciso davanti ai fotografi ad Ankara nel 2016. Ma la reazione del presidente, Vladimir Putin, per ora è misurata e quieta, diversa da quel famoso “li scanneremo nei cessi” rivolto ai terroristi ceceni nel 1999 che contribuì a creare la sua fama di duro. Come se avesse deciso che ormai è inutile riscaldare ancora gli animi, la guerra è già in corso, non c’è bisogno di ricordarlo ad amici e nemici.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)