Un carroarmato dell'esercito iracheno a Mosul (foto LaPresse)

Chi combatte l'Isis a Mosul? Sul Tigri con l'Erd, che spinge avanti la prima linea

Daniele Raineri

Le divisioni irachene costate miliardi di dollari all’America non si vedono. Reportage

Mosul, dal nostro inviato. Loro cercano di capire dove siamo noi e noi cerchiamo di capire dove sono loro – l’ufficiale dell’esercito iracheno indica a caso tra i palazzi. Loro sono lo Stato islamico e “noi” sono i soldati della Divisione di reazione rapida (Emergency Response Division, Erd, lo scrivo in inglese perché sui mezzi hanno anche questa sigla in inglese). Siamo con una colonna di blindati sulla sponda ovest del fiume Tigri, all’altezza del Ponte di ferro, il punto massimo dell’avanzata. E’ una versione terrestre della battaglia navale e al posto delle caselle ci sono gli isolati di Mosul diroccati dai bombardamenti aerei. Un cecchino dello Stato islamico vede e spara un paio di colpi contro i soldati appesi fuori al blindato di testa, che si era fermato con molta poca prudenza allo scoperto oltre l’angolo del palazzo – un hotel – che nasconde la colonna dei veicoli. I colpi esplodono contro la corazza, un paio di reporter iracheni che si erano spinti troppo avanti per filmare si accovacciano sotto il mezzo, un secondo blindato arriva di fianco al primo e si mette a sparare senza un’idea precisa del bersaglio. Si aggiunge un carro armato, spara colpi esplorativi con la canna del cannone puntata molto in basso – se davvero l’equipaggio ha localizzato il cecchino allora dev’essere nascosto in qualche appartamento al primo piano dall’altro lato della strada. Però così ci siamo scoperti anche noi. Trenta minuti dopo tre razzi dello Stato islamico si alzano da qualche parte nei paraggi e cadono sul convoglio, uno fa saltare un angolo dell’hotel, i soldati iracheni raccolgono un loro compagno messo male (niente fotografie!, ordinano) e lo portano via.

 

L’offensiva procede in questo modo, ciascuno prova le caselle dell’altro quasi alla cieca. I mezzi avanzano, i cecchini li seguono dai loro nascondigli, i grossi calibri tentano di snidare i guerriglieri, quelli rispondono con lanci di razzi e di mortai puntati dove pensano che gli invasori siano ammassati. A quel punto calano gli elicotteri e gli aerei, a fulminare le squadre di fuoco dello Stato islamico. E poi di nuovo e di nuovo. Oggi è pure una bella giornata di sole, il tempo preferito dai soldati a terra perché offre le condizioni migliori ai piloti sopra di loro.

 

La Erd ha il compito di spingersi in avanti alla prima linea dentro Mosul e adesso è arrivata al Ponte di ferro, che è il terzo dei cinque ponti che collegano la metà est della città (ormai liberata) da quella ovest (ancora infestata), quindi siamo a tre su cinque. I jet americani li hanno fatti saltare tutti, ma con un accorgimento: hanno distrutto soltanto la rampa d’accesso, che è la parte sulla terraferma, così sarà più facile ricostruire quando sarà tutto finito. Dall’altra parte del Tigri spicca la sagoma bianca della Grande Moschea. Dirimpetto a quella ma sulla nostra sponda a meno di un chilometro – se soltanto fosse possibile affacciarsi di sguincio tra i palazzi – c’è il minareto sghembo della moschea al Nuri. Tutti non parlano d’altro, perché è la moschea dove Abu Bakr al Baghdadi nel luglio 2014 apparve per la prima e unica volta a viso scoperto con il mantello nero della dinastia Abbaside per registrare un sermone in video davanti ai fedeli. E tutti pensano la stessa cosa: quando quel pulpito passerà sotto il controllo dei soldati e dei giornalisti il Califfato subirà una morte simbolica.

 

Il giorno dopo, quando ormai la posizione dei soldati è chiara e su Mosul cade una pioggerellina bassa, un bulldozer dello Stato islamico trasformato in camion-bomba sfonda un posto di blocco dietro le linee tenute dalla Erd, percorre la stessa strada fatta dai soldati, arriva alle loro spalle, da dove in teoria non dovrebbero arrivare minacce, ignora un singolo blindato perché cerca un bersaglio più pagante, s’infila fra più blindati parcheggiati e salta in aria. E’ la loro versione dei bombardamenti aerei. A bordo del bulldozer-bomba ci sono due volontari suicidi guidati da un drone sopra di loro, il che vuol dire che gli americani non riescono più a interferire con il volo dei droni come hanno fatto con successo tutta la settimana scorsa.

 

La Erd e la più nota Golden Division dell’antiterrorismo sono le due divisioni che stanno sopportando il peso maggiore dei combattimenti contro lo Stato islamico dentro Mosul ovest. Dietro di loro c’è la polizia federale, che avanza ma soprattutto riempie gli spazi conquistati dalle prime due. E più a ovest, fuori dalla città, la Nona divisione e le milizie sciite fanno da barriera e tagliano ogni via di fuga verso la Siria. Questo vuol dire che le divisioni irachene create e addestrate con l’aiuto americano nel 2015 e nel 2016 per fare la guerra allo Stato islamico, con un programma specifico di spese militari che ha toccato il costo di 39 miliardi di dollari, non stanno facendo quello che dovrebbero e non sono coinvolte nella battaglia. La Golden Division è addestrata dagli americani fin dal dopo invasione del 2003, è alle dipendenze del primo ministro Haider al Abadi, ed è formata da truppe scelte, che non dovrebbero essere sempre alla testa della campagna contro lo Stato islamico. Sostiene le perdite più gravi, tanto che i giornalisti nell’ultima settimana sono stati tenuti alla larga. Dal punto di vista della strategia militare è uno spreco, è come usare le teste di cuoio in un ruolo di fanteria.

 

Lo stesso discorso vale per la Erd – anche questa addestrata dagli americani – che inoltre è legata all’organizzazione Badr, vale a dire agli sciiti influenzati dal governo iraniano. Oltre alla latitanza delle divisioni “americane”, c’è da dire che prima della battaglia a Mosul la Golden Division e gli sciiti della Badr si guardavano con davvero poca simpatia, ma adesso si combatte e questo non è tempo per le sfumature politiche. Il piano militare per arrivare alla moschea di Baghdadi per ora funziona, non come era stato immaginato. 

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)